"Passato Prossimo. Memorie di un sindacalista d’assalto", di Pierre Carniti, Castelvecchi editore, anno 2019


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"Passato Prossimo. Memorie di un sindacalista d’assalto", di Pierre Carniti, Castelvecchi editore, anno 2019

Recensione di Giuseppe Mele

Recensione di Giuseppe Mele Passato, tanto prossimo, da non passare
16 anni fa prese a circolare, quasi fosse un samizdat, una storia d’altri tempi, di rivendicazioni operaie e di ribellione permanente, ma raccontata da un esponente del sindacato moderato, se così si può dire, dati i tempi trattati, che sono il decennio ’75-’85. L’autore la teneva però stranamente nel cassetto. Anche quando ormai le tesi del sindacato occidentale si erano imposte, volle trattenere la pubblicazione, forse temendo di venire travisato. Così il diario di Pierre Carniti, segretario Fim, metalmeccanici Cisl, nella stagione dell’unità sindacale della categoria in Flm, poi capo del sindacato cattolico, è uscito postumo, a 35 anni dagli eventi trattati, sotto il titolo di Passato prossimo. Un ritardo indicativo della censura ambientale, sindacale e partitica, della sinistra, incapace sempre di ammettere errori e sconfitte; ed anche indicativo dell’autocensura che spesso i membri di minoranza di quel milieu si sono imposti, in un impeto di errata generosità, mai ringraziata.

La storia orale e scritta
Un ampio numero di conoscenti, non necessariamente amici, di Carniti, ne conoscevano comunque le analisi, i rimpianti, le statistiche, i ragionamenti, le congetture tramandate oralmente, poi messe per iscritto in righe pacate, trasudanti giudizi pesantissimi, ma oggettivi. Un racconto che ha l’antefatto del ’62 a Torino, piazza Statuto, durante la a caccia brava di settemila infuriati dell’estrema ai quadri Uil, rea di firma di accordi non unitari in Fiat. La memoria prosegue poi 18 anni dopo con la classe operaia sempre sulla strada che la doveva portare in paradiso. 45 giorni di lungo blocco dei picchetti ai cancelli del grande sciopero torinese, dopo che la Fiat ha licenziato 61 dipendenti in odore di terrorismo, poi con successive mosse tattiche, ha cacciato prima 16mila operai, infine ne ha messo 23mila in cassa integrazione. Lo sciopero eroico rinverdisce il ’17 ed il ’44: si fa atmosfera gramsciana da Ordine Nuovo, quando il 26 ottobre ‘80 il segretario comunista Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori minaccia l’occupazione di una città di 45mila operai, incurante della vandea della rivolta di due settimane prima dei quarantamila quadri. Le grandi manifestazioni si susseguono, in una confusione contraddittoria tra categoriali, confederali generali sindacali e quelle comuniste, distinte da tutte le altre. Ci scappa anche un Bentivogli padre che conciona con lo sfondo di una maxifoto di Lenin. Gli accordi perseguiti e sputtanati il giorno dopo sui giornali di destra e di sinistra vedono il Pierre portato via dopo un’assemblea ai cancelli protetto da Ferrara, giovane elefantino allora comunista. Tutto prepara il congelamento antinflazione di tre punti di scala mobile, ventimila lire dell’epoca, preparato da Scotti e firmato da De Michelis, ministro del Lavoro del governo Craxi nel San Valentino ’84, oggetto furioso della campagna per le europee del giugno successivo. Per poi perdere il referendum abrogativo sulle ventimila lire in meno di contingenza del 9 e 10 giugno dell’anno dopo.

Cattosocialista, tra similutidini e no
Se Carniti era stato uno dei protagonisti dello stop alla scala mobile con il segretario Uil Benvenuto, fu proprio il Pierre, il cattosocialista, (orribile dictu), futuro deputato Psi, a spingere il Cinghialone, quand’era titubante, alla guerra del voto sul decreto, poi vinto con il 55%., punto finale dell’escalation di uno scontro più politico che sociale, la cui potenza ancora oggi appare sottovalutata. Qui l’autoreferat del sindacalista cremonese finisce con l’abbandono dopo 12 anni di segreteria Cisl nell’85. Marco Bentivogli, attuale segretario Fim, che del volume ha scritto l’introduzione, l’avrebbe voluto sbandierare ben prima, molto più dell’Autore. Gli accostamenti vengono naturali, a partire dal ruolo in categoria lasciato da Carniti a babbo Bentivogli, poi restata in famiglia. Entrambi combattono sul campo di battaglia, prima e dopo che fosse ex, della Fiat, il nostro automotive per antonomasia, che è industria per eccellenza, di fronte ai formidabili Romiti e Marchionne, che puntano a far pagare le mancanze societarie ai conti del nostro e di altri Stati. Entrambi si muovono lungo una ricerca propositiva, rara nel mondo sindacale, che si traduce nell’idea di Carniti del Fondo di solidarietà per la cogestione sindacale (accettata dal segretario Cgil Lama sconfessato da Berlinguer) e nel richiamo di Bentivogli al positivo approccio delle unions alla digitalizzazione del lavoro, nel Manifesto e nel Contrordine compagni. Potrebbe essere dunque l’occasione per celebrare la continuità di due sindacalisti occidentali che da falchi, hanno guidano alla rottura con la logica antisistemica comune alla Fiom, metalmeccanici Cgil ed al fu Pci. Le similitudini però non possono nascondere che Pierre fu epigone dell’unità sindacale a tutti i costi, rompendo con la partitica, mentre Marco ha sempre tenuto uniti i cocci del fronte politico di riferimento. Il falco non può celebrare le vestigia di uno che non lo era. Carniti non lo era ed anche per questo nella sua determinazione fu profondamente odiato.

La descrizione dei tempi
Lo spirito dei tempi 35 anni fa non era quello di oggi dove territorio e lavoro affrontano la competizione sostitutiva di tecnologia e finanza. Allora il mondo del lavoro era un protagonista ineludibile. conteso e tirato da una parte e dall’altra da sindacati, intellettuali e partiti. Alle migliaia di forme social di comunicazione corrispondevano centinaia di migliaia di gambe, di braccia, di occhi e di bocche urlanti. La piazza era veramente la terza Camera senza bisogno dell’incitamento narcotico di giustizia e media. Ed il diario diventa una preziosa bussola per riscoprire un tempo dimenticato. Un tempo mitico, antico, rivoltoso, arretrato, povero, molto violento, striato di colate di sangue quotidiane. Un tempo con segregazioni quotidiane economiche per veneti e terroni, prototipi dei futuri immigrati di colore, un tempo in cui il principale welfare era lo Stato imprenditore di più di metà del mercato, un tempo in cui le mense di operai e impiegati erano ancora divise, ed in cui si emigrava ancora in Africa, da italiani, negri bianchi, un tempo in cui anche chi brandiva l’unità considerava i colletti bianchi skillati meno lavoratori degli altri. Un tempo oggi divenuto quasi incomprensibile, dopo il restauro crema e rosa di massima edulcorazione che ne è stato fatto, in omaggio alla favola dell’età dell’oro raccontata dai cattocomunismi del neocompromesso storico, ancora invaghiti dal miraggio della pacificazione berlinguerianmorotea. Lo sguardo analitico dello spirito pratico, lombardo, Carniti rompe la bolla di sapone, mettendo in discussione, con l’analisi degli status economici reali e la collaborazione dell’economista Tarantelli, vittima del terrorismo, anche istituti must, come i risultati economici non esaltanti dell’autunno caldo, quelli illusori di una scala mobile intesa diversamente dalle origini, l’amore per lo scontro politico in quanto tale. Il suo antagonismo, rispetto al main stream pesante contro il pluralismo sindacale, si dirigeva contro la strumentalità dell’operato dei management aziendali; tutto per lo scopo principe dell’agognata redistribuzione dei redditi.

Cecolovacchia, Sudamerica, Boom
L’Italia descritta nel testo è quella effettiva del tempo, per un terzo Cecoslovacchia, per un terzo Sudamerica; e per un terzo anche Italia creativa, fattiva, capace di sviluppo e crescita. L’autore riconosce l’ondata positiva, che segue al boom di vent’anni prima e non si vergogna di vedere quanto la società economica sia capace di fare negli anni ’80, utile alla redistribuzione, leva di promozione sociale, malgrado il contesto di narrazione buia e di condanna aprioristica del capitalismo generalizzata. Qui dal suo racconto viene registrata l’aria acre dell’odio e del sostegno diffuso a tante forme di violenza, intese come calmiere dell’antagonismo padronale. Perciò il diario si apre con la storia di incitazione alla violenza di strada dei primi ’60, dopo i fatti di Genova liberticidi delle volontà parlamentari, con l’incitamento da parte degli intellettuali, in carriere perpetrate sull’esaltazione dell’operaio massa, giovane e dalle magliette a strisce che collegavano ogni jacquerie al mito delle armi nascoste dalla disubbidiente Resistenza. Il giudizio, diffuso al tempo di corruzione e degrado, che oggi fa sorridere, veniva cavalcato a tutti i livelli dal Pci, che si presentava nell’austera veste di partito di legge ed ordine, gestore e domatore della piazza. Era il partito che esprimeva il presidente della Camera, autore di Stato Operaio ed il cui segretario poteva minacciare l’occupazione militante delle fabbriche italiane, in nome del medesimo sistema di pensiero che traversava un’area vastissima dai Quaderni Rossi per giungere alle istanze del terrorismo, la cui onda l’aveva portato vicinissimo al potere per poi scacciarcelo. Di tutto, ciò che lasciò stupefatto Carniti fu l’inutilità di ragionare con il vertice Cgil, perché ogni cosa concordata lasciava il passo al diktat di partito che così annullava ruolo e peso dell’unità dei lavoratori. I governi laici ed il cambiamento dei socialisti avevano già smussato il filo tagliente delle lame della forbice comunista che univa istanze di destra e di sinistra ma solo il referendum sulla scala mobile distrusse sia la coltivazione del dogma che su lavoro e lavoratori l’ultima parola spettasse ai comunisti sia la loro ultima fiducia di strategia di potere, coltivata, dopo la prima ed unica vittoria delle elezioni europee, dette del sorpasso, dell’84 durante un comizio delle quali a Padova morì Berlinguer. Umile e naive, ritroso al protagonismo, disposto alla fiducia fino all’ultimo, ma testardamente roccioso nelle sue convinzioni restò una seconda volta di sasso, quando sul letto d’ospedale ascoltò ancora più esterafatto la richiesta di Berlinguer di resa al suo pauperismo cui tutti moralmente dovevano inchinarsi. Così che il sindacalista fece tenere duro a Craxi, divenuto carnitiano, nella sfida posta alla democrazia. Sia ben chiaro, programmazione dell’economia e partecipazione di gestione sindacale erano tutti nel bagaglio di Carniti che credeva, come molti ambienti cattolici e laici di maggioranza, all’autonomia propositiva dei lavoratori, tesi divenuta celebre dal movimento di Autonomia Operaia, considerata vicina all’eversione. Il sindacalista era dunque anche più a sinistra dei comunisti di cui aborriva però il calcolo di potere, disattento alle proposte ed alle soluzioni.

Samizdat
Passato prossimo è la fotografia di un tempo remoto; del sostegno interno ed esterno al terrorismo, delle prime sofferenze alle regole dell’incipiente costrizione occidentale, di un’ economia capace di sviluppo autonomo e della vittoria di uomini sostenuti dall’appoggio popolare. Gli indignati dei tagli alle buste paga per mano di sindacalisti, dopo, con cappotti nuovi e barbe finte, furono i primi ad eliminare scala mobile, unità sindacale ed altri istituti di protezione in una rapida escalation fiscale. Ogni tanto magnificando un’epoca divina che invece era un incubo, da cui l’Italia seppe sottrarsi malgrado i suoi vertici. Per questo, la memoria di Carniti resta un samizdat, che con suo dolore ne lascia all’inferno gran parte. Quella che ancora oggi troviamo spesso nella recente toponomastica, e di cui un giorno ci liberemo del tutto.

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