3 gennaio 1925. Nascita di una dittatura


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FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

3 gennaio 1925. Nascita di una dittatura

Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e l’impasse parlamentare che ne conseguì il 3 gennaio del 1925, alla Camera, Benito Mussolini pronunciò il discorso che è considerato come il vero atto di nascita del regime.
Mussolini: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato una associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo clima, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato».
Provando a motivare le sue scelte con l’Aventino, con l’abbandono delle attività parlamentari da parte di un centinaio di deputati che non ritenevano esistenti le condizioni di agibilità democratica se non a rischio gravissimo della propria vita (come Matteotti aveva confermato), Mussolini continuava: «In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c’è un governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una come governo? Un popolo non rispetta un governo che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del governo e il popolo prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma! Ed era colma, perché? Perché la sedizione dell’Aventino... ha avuto conseguenze, perché oggi in Italia, chi è fascista, rischia la vita».
In quel discorso, Mussolini si assunse tutte le responsabilità. In realtà, si assunse la responsabilità dei modi di essere del suo movimento, gli fece scudo, ma rispetto al delitto Matteotti lui non si assunse alcuna responsabilità: «Se io avessi fondato una Ceka (cioè la Milizia, n.d.a.), l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi... E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso... non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo».
Infine l’annuncio minaccioso della nascita del regime: «Voi avete creduto che il fascismo fosse morto finito perché io lo comprimevo... L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile e con la forza, se sarà necessario».
Usò molto la seconda, la prima decisamente meno. Cominciarono subito le persecuzioni degli antifascisti, i licenziamenti (di molti ferrovieri che scioperando avevano interrotto un servizio pubblico), le epurazioni (il 14 per cento dei giornalisti espulsi in due anni dagli organi professionali), le dimissioni “forzate” come quelle dei professori obbligati al giuramento. Anche Bruno Buozzi andò via, vittima di un giro di vite che riconosceva solo un sindacato (quello fascista), che non garantiva una libertà fondamentale come il diritto di sciopero, che trasformava il Parlamento in una inutile appendice di un regime autoritario.
Se il 3 gennaio è nato il regime, è evidente che quello è l’atto di nascita anche dell’anti-regime, della presa d’atto delle forze antifasciste che nessuna mediazione era più possibile: esistevano due Italie. Divorziarono quel giorno.


3 gennaio 1925. Nascita di una dittatura  Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti e l’impasse parlamentare che ne conseguì il 3 gennaio del 1925, alla Camera, Benito Mussolini pronunciò il discorso che è considerato come il vero atto di nascita del regime. Mussolini: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato una associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo clima, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato». Provando a motivare le sue scelte con l’Aventino, con l’abbandono delle attività parlamentari da parte di un centinaio di deputati che non ritenevano esistenti le condizioni di agibilità democratica se non a rischio gravissimo della propria vita (come Matteotti aveva confermato), Mussolini continuava: «In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c’è un governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una come governo? Un popolo non rispetta un governo che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del governo e il popolo prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma! Ed era colma, perché? Perché la sedizione dell’Aventino... ha avuto conseguenze, perché oggi in Italia, chi è fascista, rischia la vita». In quel discorso, Mussolini si assunse tutte le responsabilità. In realtà, si assunse la responsabilità dei modi di essere del suo movimento, gli fece scudo, ma rispetto al delitto Matteotti lui non si assunse alcuna responsabilità: «Se io avessi fondato una Ceka (cioè la Milizia, n.d.a.), l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi... E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso... non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo». Infine l’annuncio minaccioso della nascita del regime: «Voi avete creduto che il fascismo fosse morto finito perché io lo comprimevo... L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile e con la forza, se sarà necessario». Usò molto la seconda, la prima decisamente meno. Cominciarono subito le persecuzioni degli antifascisti, i licenziamenti (di molti ferrovieri che scioperando avevano interrotto un servizio pubblico), le epurazioni (il 14 per cento dei giornalisti espulsi in due anni dagli organi professionali), le dimissioni “forzate” come quelle dei professori obbligati al giuramento. Anche Bruno Buozzi andò via, vittima di un giro di vite che riconosceva solo un sindacato (quello fascista), che non garantiva una libertà fondamentale come il diritto di sciopero, che trasformava il Parlamento in una inutile appendice di un regime autoritario.  Se il 3 gennaio è nato il regime, è evidente che quello è l’atto di nascita anche dell’anti-regime, della presa d’atto delle forze antifasciste che nessuna mediazione era più possibile: esistevano due Italie. Divorziarono quel giorno.

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