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E’ morto Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che traghettò l’Italia.

Carlo Azeglio Ciampi Sfuggire ala retorica in tristi occasioni come quella della scomparsa di un personaggio pubblico è esercizio decisamente complicato. Ho conosciuto Carlo Azeglio Ciampi in tutte le sue vesti: governatore della Banca d’Italia, presidente del Consiglio, ministro del Tesoro, senatore a vita e, ovviamente, presidente della Repubblica. Tanti abiti tenuti insieme da una sola, granitica dignità. Ecco perché non credo che sia retorico affermare che insieme a Luigi Einaudi e a Sandro Pertini lui sia uno degli uomini di cui questa Repubblica (poco importa se prima o seconda anche perché lui le ha vissute e caratterizzate ambedue) può essere fiera, menar vanto a livello internazionale, proiettando attraverso di loro l’immagine pubblica di un Italiano virtuoso, lontano dai vizi tipici di un Paese in cui troppo spesso la furbizia individuale prevale sulla generosità collettiva. Da questo punto di vista, Carlo Azeglio Ciampi è stato senza dubbio la figura più limpida di Civil Servant avendo avuto come unico punto di riferimento in tutti i ruoli che ha ricoperto l’interesse dell’Italia, il benessere degli italiani, la capacità di unirli andando oltre le tradizionali divisioni tra Guelfi e Ghibellini e contro i miserabili egoismi provinciali e campanilistici. Solo in questa ottica può essere letta la sua battaglia per restituire dignità all’inno di Mameli in un momento in cui i venti della secessione soffiavano così forte da assumere anche caratteri simbolicamente musicali, attraverso la contrapposizione del “Va’ pensiero” verdiano alla componimento del giovane eroe della Repubblica romana e di Novaro.
Conservo ancora le sue lettere. Una me la inviò nel corso della breve legislatura che fece da cerniera tra la fine del terzo governo guidato da Silvio Berlusconi (2006) e l’insediamento del quarto (2008). Il biennio del governo Prodi nato da una consultazione politica in cui il centro-destra aveva perso ma il centro-sinistra non era riuscito a vincere. Una legislatura che aveva tutte le caratteristiche di un’anatra zoppa. Venni eletto a sorpresa al Senato presidente della commissione finanze che era divisa esattamente a metà. Carlo Azeglio Ciampi di quella commissione era uno dei membri, il più autorevole, il più preparato. Avrebbe potuto far pesare su tutti noi la sua storia, invece lavorava con dedizione, con l’impegno che aveva messo in tutte le altre sue esperienze professionali e politiche. In quella lettera si congratulava con me per il lavoro che la commissione, pur senza una maggioranza, era riuscito a svolgere, per le questioni complesse che eravamo riusciti ad affrontare, in uno spirito costruttivo, di confronto, mai di scontro.
L’uomo era tutto nella sua solidità culturale, in quella straordinaria formazione umanistica che lo rendeva diverso anche nel suo lavoro di economista: non solo freddi calcoli, numeri che si accodavano ad altri numeri, ma la consapevolezza che in tutto questo c’era uno spirito, c’era l’uomo nella sua essenza più misteriosa e straordinaria, con le sue piccolezze e le sue grandiosità, con la miseria giornaliera e con la ricchezza nel saper guardare avanti provando ad annodare anche i fili di un discorso sconnesso. Quello spessore aveva incantato tutti qualche anno prima, nel ’96 quando lo accolsi a Montecitorio da presidente della commissione finanze. Alla fine dell’audizione, cosa insolita (e non so se si sia mai più ripetuta) ci alzammo tutti in piedi ad applaudirlo: il suo non era stato un discorso, ma una vera e propria lezione, non solo finanziaria.
Era imbevuto di quella cultura azionista per la quale la politica non può essere slegata dall’etica. Guardava all’Italia e all’Europa con gli occhi di chi aveva conosciuto terribili tragedie: il fascismo, le guerre, le politiche (e le ambizioni) coloniali. Spesso spiegava che il lungo periodo di pace che stavamo vivendo era solo merito di una idea di Europa che si era andata rafforzando, indebolendo gli antichi confini e le vecchie rivalità che ora, risorgendo, probabilmente hanno finito per amareggiare l’ultimo tratto della sua vita. Perché l’Unione che era nata non era quella che lui aveva sognato e che, per cultura politica, era più vicina a quella di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni che non a quella degli attuali euroburocrati. Guardava alla moneta unica come a un pezzo della costruzione generale: un elemento non il tutto che, invece, doveva ruotare intorno ai popoli. Coerenza e preparazione lo avevano reso estremamente popolare all’estero, una popolarità fatta di stima non di compiacenza. Guardava all’Europa perché credeva in un’Italia non provinciale, credeva in un italiano capace di guardare ben oltre il proprio orticello, di pensare costruzioni grandiose per il futuro, capace di visioni che andassero al di là del quotidiano. Sapeva distinguere i meriti storici dai demeriti contingenti. Quando Bettino Craxi morì inviò un telegramma pieno di partecipazione sottolineando le validità delle scelte da lui compiute in occasione dell’installazione degli euromissili: in Italia non vennero mai montati ma contribuirono ad accelerare il dialogo tra Est e Ovest che portò alla conclusione della Guerra Fredda.
Resterà l’uomo che, a livello sindacale, ha fatto conoscere a questo paese la politica dei redditi. La inseguivamo da tempo poi, con lui presidente del Consiglio, arrivò l’intesa che archiviò in qualche maniera le vicende drammatiche che un anno prima avevano caratterizzata la fase conclusiva del dialogo tra i sindacati e il governo presieduto da Giuliano Amato, con Bruno Trentin, segretario della Cgil, che rassegnò le dimissioni ritirate poi qualche mese dopo. Credeva in quella scelta. Considerava la politica dei redditi uno strumento di governo dell’economia, di composizione dei conflitti sociali, di redistribuzione della ricchezza in maniera più equa. Una concezione diversa da quella che anni prima aveva teorizzato Ugo La Malfa (anche lui di scuola azionista). Quell’accordo ha retto per vent’anni e forse le sue potenzialità non furono colte pienamente dalle forze sociali, imprenditori e sindacati, che finirono per interpretarlo solo come la chiave per aprire la “sala verde” affermando così una partecipazione istituzionale. Non era solo quello, era ben altro.
Era un banchiere, ma di pasta diversa dai tanti oggi in circolazione. Quando ero segretario generale della Uil e lui governatore della banca d’Italia riuscimmo a scardinare l’egemonia della Cgil nel palazzo di via Nazionale. Dovevamo sgomitare per conquistare il consenso e spesso eravamo aggressivi. I rapporti con lui erano dialettici, a volte apertamente conflittuali ma sempre ispirati a principi di correttezza. Lui non amava troppo il sindacato antagonista preferendo quello partecipativo. Ma era proprio questa sua convinzione a tenere aperti i canali del dialogo, anche quando il dialogo appariva complesso, quasi fra sordi.
Da presidente del consiglio ha fatto la riforma elettorale, traghettato l’Italia dal pantano di “tangentopoli” alle elezioni; da presidente della Repubblica è venuto dopo Oscar Luigi Scalfaro presidente rumorosamente contestato da Forza Italia e da Silvio Berlusconi; ha visto sfilare sotto il suo settennato governi di centro-destra e governi di centro-sinistra riuscendo a garantire anche nei momenti di più acuta polemica una accettabile coesione nazionale; quando alla fine del mandato gli proposero la rielezione, garbatamente rifiutò. Il Paese gli deve molto perché è stato lui il vero “traghettatore” dell’Italia dalla Prima alla Seconda Repubblica riaffermando un primato della politica quando in tanti reclamavano forme di supplenza improbabili e pericolose. Grazie Presidente.

Giorgio Benvenuto

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