Il mio ricordo di Cesare Romiti di Giorgio Benvenuto


L'italia di ieri, di oggi e di domani.

FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

   31 Agosto 2020

Il mio ricordo di Cesare Romiti di Giorgio Benvenuto

“Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie” sosteneva il filosofo Hegel. In un certo senso è quello che è accaduto a Cesare Romiti quando si è trattato di descriverne il protagonismo nella vita economica e sindacale del Paese. Di Romiti si è detto soprattutto che è stato il dirigente d’impresa che ha messo a posto il sindacato. L’uomo dal pugno di ferro che ha stroncato la forza sindacale. E varrebbe la pena di ricordarlo così. La storia di un uomo, di un dirigente in un atto: la sconfitta sindacale alla Fiat del 1980. In questo modo in un certo senso si riattiva anche uno spirito antisindacale che cova sotto la cenere dell’attuale politica e trova in Romiti un esemplare progenitore di successo. In questo modo inoltre si può fare a meno del contesto politico e sociale di quel tempo. Una memoria inutile. Ed invece no. Quel contesto va ricostruito per rendere giustizia anche a Romiti che, a pare mio, non è stato un… mazziere al soldo della Fiat. Un Valletta redivivo, se vogliamo… nobilitarlo. Io ho un ricordo ben diverso di lui. Escludo che abbia perseguito uno scopo antisindacale e discriminatorio nella sua esperienza come se fosse la sua stella polare. Mi viene in soccorso anche la descrizione che Carniti fece dei giorni successivi all’accordo Fiat del 1980. Pierre nei suoi appunti di quel periodo recupera un fatto del tutto ignorato e che continua ad esserlo: Romiti chiamò separatamente lui, Lama ed il sottoscritto, a Roma, come se volesse dopo quell’aspra trattativa con un gesto distensivo dimostrare che non ce l’aveva con i sindacati né perseguiva obiettivi di divisione. Tanto che offrì, in separata sede ovviamente, a tutti e tre di riparare ad eventuali eccessi di zelo dei suoi dirigenti, togliendo dalle liste della cassa integrazione delegati delle tre sigle che fossero ritenuti importanti per il lavoro sindacale. Insomma, come scrisse Carniti, Romiti in realtà non si sentiva quel Mosè dipinto dalla stampa che aveva salvato la Fiat e il capitalismo italiano. Lui con il sindacato voleva continuare a trattare e fare accordi se possibile.
La vertenza Fiat non spunta come un fungo all’improvviso sotto un albero. Le vicende societarie sono complesse: si ricorderà che si passò da una sorta di triumvirato composto da Cesare Romiti, Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti ad una marcata divisione fra proprietà e gestione del gruppo.
In quegli anni Romiti, giunto in Fiat su indicazione di Enrico Cuccia, il presidente storico di Mediobanca, costruisce un rapporto molto stretto con Gianni Agnelli. Ma entrambi non giocano né a dividere, né a ripercorrere la vecchia politica degli anni ’50. In quel periodo Gianni Agnelli sigla con tutto il sindacato il patto sul punto unico di scala mobile, passo compiuto in vista di un clima sociale meno antagonista; in parallelo lancia un patto contro la rendita, impossibile da concepire in uno scenario di duro scontro con il sindacato. Quella stagione economica e politica inoltre è assai contrastata: la Fiat ricorre ai capitali libici, è alle prese con la crisi petrolifera, il terrorismo è in piena e lugubre azione, sul mercato interno perde posizioni, scendendo vistosamente da percentuali quasi monopolistiche (era arrivata al 70% del mercato italiano). Inoltre si trova a fare i conti con minori possibilità di svalutazione (per il gruppo era una consolidata opportunità competitiva) con l’introduzione dello Sme. Eppure quando si tratta si tratta con tutto il sindacato, con Cgil, Cisl e Uil. Nessuno resta fuori della porta, la Flm resta un interlocutore senza alcuna discriminazione. Romiti lavora con Agnelli, la pensa come lui. Non avrebbe potuto essere diversamente.
Ma è un fatto politico di forte impatto a sparigliare il gioco e che resta anche oggi del tutto trascurato nelle ricostruzioni, nelle analisi e nei ricordi: la decisa svolta del Pci di Berlinguer che mette fine al compromesso storico, si riprende in pieno la sua autonomia di azione a partire dal recupero dell’egemonia nelle lotte sociali e sindacali. Le avvisaglie spuntano già quando ancora il Pci appoggia il governo Andreotti. La decisione di entrare nello Sme, il sistema monetario europeo antenato dell’euro, viene contrastata con un no secco e deciso dai comunisti (e non certo per fare un favore alla Fiat). Si riprende con la politica dei “no” e dei veti che sono avvantaggiati dall’incertezza politica e dalle debolezza dei tentativi di rimettere in piedi dei governi dopo quello della cosiddetta solidarietà nazionale. Certo non tutti nel Pci la pensano in questo modo, ma il centralismo democratico di quel partito rende inoffensive le critiche, almeno all’esterno.
Come si ricorderà ne fanno le spese personaggi di primo piano della esperienza politica comunista: Giorgio Amendola nel 1980 crede alle difficoltà della Fiat. Lo sostiene apertamente, viene praticamente zittito. Ma soprattutto è Luciano Lama a pagare il prezzo più pesante: deve ingoiare il veto di Berlinguer all’intesa fra sindacati e Governo sul fondo di solidarietà dello 0,50% per il Sud. Firma a grande fatica il primo accordo con Enzo Scotti, Ministro del lavoro del Governo Fanfani, nel 1983 sulla scala mobile. Lama difende così il ruolo unitario della Federazione Cgil-Cisl-Uil che invece quel Pci non giudica più importante se mette in discussione il suo potere decisionale.
Del resto in due occasioni nella vertenza della Fiat nel 1980 che ha contribuito a costruire il mito di Romiti, Enrico Berlinguer scavalca il sindacato: lo fa andando davanti ai cancelli della Fiat (malgrado Gerardo Chiaromonte, responsabile della politica economica lo sconsigliasse vivamente) e quando sostiene che si dovrebbe trattare a Torino e non a Roma, come a Danzica, dove Solidarnosc affronta il Governo comunista con gli altoparlanti ed il tavolo del negoziato in piazza. Una sconfessione del ruolo negoziale del sindacato clamorosamente esplicita.
Le organizzazioni sindacali diventano immediatamente più deboli, schiacciate fra questo Pci barricadero e le avanguardie massimaliste presenti fra i metalmeccanici. Manca loro l’appoggio politico. Eppure Romiti dette prova di voler puntare all’accordo. Certo non fu di aiuto in quell’autunno del 1980 l’affrettata mediazione del Ministro del lavoro di allora Franco Foschi, democristiano della corrente di Donat Cattin, fu rifiutata dalla Fiat e la velata minaccia… di nazionalizzarla, incautamente fatta trapelare dal Ministro che non aveva però la personalità del “torinese” Donat Cattin non agevolò la continuazione del confronto. Quando poi la marcia dei quarantamila spostò a favore dell’azienda, evidenziando in un solo colpo anche gli errori del sindacato, il confronto Romiti, dirigente capace ed in grado di valutare i rapporti di forza, decise che era il momento di forzare la mano.
In quei drammatici frangenti nel sindacato emerse anche la volontà di non accettare nessun accordo. Anche Carniti ragionò su questa eventualità. Ma se non avessimo accettato quell’intesa, probabilmente il sindacato italiano sarebbe stato spazzato via in nome di un antagonismo politico e sociale fine a se stesso.
Ritengo che sia ingiusto quindi descrivere Romiti come un picconatore del sindacato. Altri impugnarono quel piccone, lui seppe valutare in quel momento quali erano i rapporti di forza e si comportò di conseguenza. Ma senza puntare a spaccare il sindacato come dimostrano i suoi passi all’indomani di quella intesa.
La riprova di questa ricostruzione l’avemmo poi nel 1984, con l’accordo di San Valentino. Agnelli e Romiti nell’occasione si comportarono diversamente: il primo votò a favore del patto di San Valentino, il secondo contro. Perché Romiti fu contrario? Perché pensava che il sindacato, soprattutto la sua anima riformista, sarebbe uscito perdente da quella terribile contesa, perché riteneva che quell’accordo era un… regalo ai comunisti e mise in guardia me e Pierre Carniti. Probabilmente la gigantesca manifestazione di Roma a favore del sì, rafforzò le sue convinzioni anche se nell’occasione Lama sul palco si comportò in modo prudente. L’esito del referendum dimostrò che aveva torto, ma in realtà impersonava la convinzione prevalente del mondo imprenditoriale. Non si dimentichi che ad urne appena chiuse del referendum sulla scala mobile la Confindustria guidata da Lucchini annunziò la disdetta della scala mobile. Si riteneva che il “sì” avrebbe prevalso. Probabilmente però nel giudizio di Romiti anche in quella circostanza contò il fatto che con il sindacato si dovevano fare accordi ma non separati. Ed anche questa è una valutazione assente nei giudizi espressi dopo la sua morte. Ma si trascurano altri episodi dl Romiti che contrastano con la definizione di “persecutore” del sindacato. In contraddittorio con Prodi all’Iri trattò e definì con tutte le organizzazioni sindacali l’accordo sull’Alfa Romeo. Il suo buon rapporto con Gianni De Michelis favorì altre intese, per Melfi, sulle Ferriere di Torino che passarono alla Partecipazioni statali, sgravando la Fiat di un grosso onere, quando da tempo comprava acciaio sul mercato a prezzi inferiori. In quegli anni si discuteva e si facevano intese importanti. Certo, era un negoziatore sicuro di sé, molto netto nelle sue posizioni, ma tutto sommato lui come Felice Mortillaro, il coriaceo, celebre Direttore di Federmeccanica, offrivano all’interlocutore sindacale negoziati privi di ambiguità, di trabocchetti, di diversivi, di sospetti. Negoziatori duri, ostici fino alla fine, ma chiari e leali.
Il seguito in casa Fiat non sarà così. La svolta di Marchionne, probabilmente inevitabile, comportò anche intese separate. Ma in quel momento la Fiat non era più un protagonista a tutto tondo della vita politica, economica e sociale italiana. Aveva compiuto l’ultimo passo per definirsi interamente un gruppo multinazionale.
La personalità di romiti dunque non può essere ricondotta solo a quel tremendo autunno del 1980 in Fiat. Ci rese la vita molto difficile, ma non dovemmo mai guardarci con lui alle spalle. Lo avevamo sempre davanti a noi, tutti e tre, come era giusto che fosse.


Il mio ricordo di Cesare Romiti di Giorgio Benvenuto “Non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie” sosteneva il filosofo Hegel. In un certo senso è quello che è accaduto a Cesare Romiti quando si è trattato di descriverne il protagonismo nella vita economica e sindacale del Paese. Di Romiti si è detto soprattutto che è stato il dirigente d’impresa che ha messo a posto il sindacato. L’uomo dal pugno di ferro che ha stroncato la forza sindacale. E varrebbe la pena di ricordarlo così. La storia di un uomo, di un dirigente in un atto: la sconfitta sindacale alla Fiat del 1980. In questo modo in un certo senso si riattiva anche uno spirito antisindacale che cova sotto la cenere dell’attuale politica e trova in Romiti un esemplare progenitore di successo. In questo modo inoltre si può fare a meno del contesto politico e sociale di quel tempo. Una memoria inutile. Ed invece no. Quel contesto va ricostruito per rendere giustizia anche a Romiti che, a pare mio, non è stato un… mazziere al soldo della Fiat. Un Valletta redivivo, se vogliamo… nobilitarlo. Io ho un ricordo ben diverso di lui. Escludo che abbia perseguito uno scopo antisindacale e discriminatorio nella sua esperienza come se fosse la sua stella polare. Mi viene in soccorso anche la descrizione che Carniti fece dei giorni successivi all’accordo Fiat del 1980. Pierre nei suoi appunti di quel periodo recupera un fatto del tutto ignorato e che continua ad esserlo: Romiti chiamò separatamente lui, Lama ed il sottoscritto, a Roma, come se volesse dopo quell’aspra trattativa con un gesto distensivo dimostrare che non ce l’aveva con i sindacati né perseguiva obiettivi di divisione. Tanto che offrì, in separata sede ovviamente, a tutti e tre di riparare ad eventuali eccessi di zelo dei suoi dirigenti, togliendo dalle liste della cassa integrazione  delegati delle tre sigle che fossero ritenuti importanti per il lavoro sindacale. Insomma, come scrisse Carniti, Romiti in realtà non si sentiva quel Mosè dipinto dalla stampa che aveva salvato la Fiat e il capitalismo italiano. Lui con il sindacato voleva continuare a trattare e fare accordi se possibile.      La vertenza Fiat non spunta come un fungo all’improvviso sotto un albero. Le vicende societarie sono complesse: si ricorderà che si passò da una sorta di triumvirato composto da Cesare Romiti, Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti ad una marcata divisione fra proprietà e gestione del gruppo.  In quegli anni Romiti, giunto in Fiat su indicazione di Enrico Cuccia, il presidente storico di Mediobanca, costruisce un rapporto molto stretto con Gianni Agnelli. Ma entrambi non giocano né a dividere, né a ripercorrere la vecchia politica degli anni ’50. In quel periodo Gianni Agnelli sigla con tutto il sindacato il patto sul punto unico di scala mobile, passo compiuto in vista di un clima sociale meno antagonista; in parallelo lancia un patto contro la rendita, impossibile da concepire in uno scenario di duro scontro con il sindacato. Quella stagione economica e politica inoltre è assai contrastata: la Fiat ricorre ai capitali libici, è alle prese con la crisi petrolifera, il terrorismo è in piena e lugubre azione, sul mercato interno perde posizioni, scendendo vistosamente da percentuali quasi monopolistiche (era arrivata al 70% del mercato italiano). Inoltre si trova a fare i conti con minori possibilità di svalutazione (per il gruppo era una consolidata opportunità competitiva) con l’introduzione dello Sme. Eppure quando si tratta si tratta con tutto il sindacato, con Cgil, Cisl e Uil. Nessuno resta fuori della porta, la Flm resta un interlocutore senza alcuna discriminazione. Romiti lavora con Agnelli, la pensa come lui. Non avrebbe potuto essere diversamente.  Ma è un fatto politico di forte impatto a sparigliare il gioco e che resta anche oggi del tutto trascurato nelle ricostruzioni, nelle analisi e nei ricordi: la decisa svolta del  Pci di Berlinguer che mette fine al  compromesso storico, si riprende in pieno la sua autonomia di azione a partire dal  recupero dell’egemonia nelle lotte sociali e sindacali. Le avvisaglie spuntano già quando ancora il Pci appoggia il governo Andreotti. La decisione di entrare nello Sme, il sistema monetario europeo antenato dell’euro, viene contrastata con un no secco e deciso dai comunisti (e non certo per fare un favore alla Fiat). Si riprende con la politica dei “no” e dei veti che sono avvantaggiati dall’incertezza politica e dalle debolezza dei tentativi di rimettere in piedi dei governi dopo quello della cosiddetta solidarietà nazionale. Certo non tutti nel Pci la pensano in questo modo, ma il centralismo democratico di quel partito rende inoffensive le critiche, almeno all’esterno. Come si ricorderà ne fanno le spese personaggi di primo piano della esperienza politica comunista: Giorgio Amendola nel 1980 crede alle difficoltà della Fiat. Lo sostiene apertamente, viene praticamente zittito. Ma soprattutto è Luciano Lama a pagare il prezzo più pesante: deve ingoiare il veto di Berlinguer all’intesa fra sindacati e Governo sul fondo di solidarietà dello 0,50% per il Sud. Firma a grande fatica il primo accordo con Enzo Scotti, Ministro del lavoro del Governo Fanfani, nel 1983 sulla scala mobile. Lama difende così il ruolo unitario della Federazione Cgil-Cisl-Uil che invece quel Pci non giudica più importante se mette in discussione il suo potere decisionale. Del resto in due occasioni nella vertenza della Fiat nel 1980 che ha contribuito a costruire il mito di Romiti, Enrico Berlinguer scavalca il sindacato: lo fa andando davanti ai cancelli della Fiat (malgrado Gerardo Chiaromonte, responsabile della politica economica lo sconsigliasse vivamente) e quando sostiene che si dovrebbe trattare a Torino e non a Roma, come a Danzica, dove Solidarnosc affronta il Governo comunista con gli altoparlanti ed il tavolo del negoziato in piazza. Una sconfessione del ruolo negoziale del sindacato clamorosamente esplicita.  Le organizzazioni sindacali diventano immediatamente più deboli, schiacciate fra questo Pci barricadero e le avanguardie massimaliste presenti fra i metalmeccanici. Manca loro l’appoggio politico. Eppure Romiti dette prova di voler puntare all’accordo. Certo non fu di aiuto in quell’autunno del 1980 l’affrettata mediazione del Ministro del lavoro di allora Franco Foschi, democristiano della corrente di Donat Cattin, fu rifiutata dalla Fiat e la velata minaccia… di nazionalizzarla, incautamente fatta trapelare dal Ministro che non aveva però la personalità del “torinese” Donat Cattin non agevolò la continuazione del confronto. Quando poi la marcia dei quarantamila spostò a favore dell’azienda, evidenziando in un solo colpo anche gli errori del sindacato, il confronto Romiti, dirigente capace ed in grado di valutare i rapporti di forza, decise che era il momento di forzare la mano.  In quei drammatici frangenti nel sindacato emerse anche la volontà di non accettare nessun accordo. Anche Carniti ragionò su questa eventualità. Ma se non avessimo accettato quell’intesa, probabilmente il sindacato italiano sarebbe stato spazzato via in nome di un antagonismo politico e sociale fine a se stesso.  Ritengo che sia ingiusto quindi descrivere Romiti come un picconatore del sindacato. Altri impugnarono quel piccone, lui seppe valutare in quel momento quali erano i rapporti di forza e si comportò di conseguenza. Ma senza puntare a spaccare il sindacato come dimostrano i suoi passi all’indomani di quella intesa.  La riprova di questa ricostruzione l’avemmo poi nel 1984, con l’accordo di San Valentino. Agnelli e Romiti nell’occasione si comportarono diversamente: il primo votò a favore del patto di San Valentino, il secondo contro. Perché Romiti fu contrario? Perché pensava che il sindacato, soprattutto la sua anima riformista, sarebbe uscito perdente da quella terribile contesa, perché riteneva che quell’accordo era un… regalo ai comunisti  e mise in guardia me e Pierre Carniti. Probabilmente la gigantesca manifestazione di Roma a favore del sì, rafforzò le sue convinzioni anche se nell’occasione Lama sul palco si comportò in modo prudente. L’esito del referendum dimostrò che aveva torto, ma in realtà impersonava la convinzione prevalente del mondo imprenditoriale. Non si dimentichi che ad urne appena chiuse del referendum sulla scala mobile la Confindustria guidata da Lucchini annunziò la disdetta della scala mobile. Si riteneva che il “sì” avrebbe prevalso. Probabilmente però nel giudizio di Romiti anche in quella circostanza contò il fatto che con il sindacato si dovevano fare accordi ma non separati. Ed anche questa è una valutazione assente nei giudizi espressi dopo la sua morte. Ma si trascurano altri episodi dl Romiti che contrastano con la definizione di “persecutore” del sindacato. In contraddittorio con Prodi all’Iri trattò e definì con tutte le organizzazioni sindacali l’accordo sull’Alfa Romeo. Il suo buon rapporto con Gianni De Michelis favorì altre intese, per Melfi, sulle Ferriere di Torino che passarono alla Partecipazioni statali, sgravando la Fiat di un grosso onere, quando da tempo comprava acciaio sul mercato a prezzi inferiori. In quegli anni si discuteva e si facevano intese importanti. Certo, era un negoziatore sicuro di sé, molto netto nelle sue posizioni, ma tutto sommato lui come Felice Mortillaro, il coriaceo, celebre Direttore di Federmeccanica, offrivano all’interlocutore sindacale negoziati privi di ambiguità, di trabocchetti, di diversivi, di sospetti. Negoziatori duri, ostici fino alla fine, ma chiari e leali. Il seguito in casa Fiat non sarà così. La svolta di Marchionne, probabilmente inevitabile, comportò anche intese separate. Ma in quel momento la Fiat non era più un protagonista a tutto tondo della vita politica, economica e sociale italiana. Aveva compiuto l’ultimo passo per definirsi interamente un gruppo multinazionale.  La personalità di romiti dunque non può essere ricondotta solo a quel tremendo autunno del 1980 in Fiat. Ci rese la vita molto difficile, ma non dovemmo mai guardarci con lui alle spalle. Lo avevamo sempre davanti a noi, tutti e tre, come era giusto che fosse.

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