Intervento del prof. Paolo Portoghesi


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Intervento del prof. Paolo Portoghesi

Pubblichiamo lo splendido intervento del prof. Paolo Portoghesi al nostro convegno "1968...2008. Comincia il ’68. Un’idea di rivoluzione".

Intervento del prof. Paolo Portoghesi A CINQUANTA ANNI DAL 1968

Parlare del ’68 per me è parlare anzitutto di una esperienza didattica perché non appartengo alla generazione delle lotte studentesche che hanno reso celebre questo anno del secolo scorso. Nato nel ’31, nel ‘68 avevo 37 anni ed avevo appena vinta la cattedra di Storia dell’Architettura del Politecnico di Milano. Mi apprestavo ad approfondire nella nuova sede, la mia conoscenza del barocco lombardo e arrivai con una valigia piena di libri e di diapositive. Trovai una facoltà in fiamme e prima di lasciare Roma feci in tempo ad assistere alla famosa rivolta di Valle Giulia in cui degli studenti incendiarono le macchine della polizia. L’elemento di base della situazione era la assoluta sfiducia dei giovani verso le istituzioni e verso i professori. Molto schematicamente consideravano la cultura stessa una manifestazione della borghesia al potere e speravano nella possibilità di assistere a una rivoluzione guidata dalla classe operaia, premessa per una radicale “rivoluzione culturale”. Il problema della formazione professionale e dell’apprendimento era per loro l’ultimo dei problemi.
Essendo, nella facoltà di architettura di Milano, l’ultimo arrivato e il più giovane in un Consiglio di facoltà composto da grandi architetti che avevano combattuto la battaglia per l’architettura moderna, i miei colleghi (Belgiojoso, Albini, Viganò, Bottoni, De Carli) decisero di eleggermi preside.
Così divenni il bersaglio di una assemblea di studenti ribelli e dovetti elaborare una strategia riformista, da porre a confronto con la strategia rivoluzionaria che ritenevo inattuale e chimerica.
Da socialista convinto, animato anche da quella sottile vena anarchica che faceva parte della tradizione del P.S.I., decisi di dialogare sinceramente con gli studenti e di sperimentare con la loro collaborazione un modello didattico basato sulla ricerca in cui i professori, invece di essere gli amministratori del proprio sapere specialistico, accettassero di partecipare con le loro competenze disciplinari a un programma progettuale di ampio respiro. Fu una impresa difficile e sofferta, in cui molti degli studenti remavano contro o perché vicini al P.C.I. e propensi a una struttura più tradizionale, o perché il loro obiettivo era proprio quello di dimostrare che il riformismo è una invenzione del capitalismo.
L’allora ministro Misasi autorizzò la sperimentazione, ma quando il rettore del Politecnico, dopo due anni di lavoro, si spaventò per il nuovo clima che si era creato nella facoltà di architettura e chiese aiuto ai poteri forti scattò una reazione violenta. Approfittando del fatto che gli studenti avevano chiesto e ottenuto dal Consiglio di facoltà di ospitare provvisoriamente un gruppo di famiglie senza tetto sgomberate dalle case occupate di via Tibaldi, la facoltà venne sgomberata interrompendo, alle sei del mattino, un seminario ininterrotto in cui si alternavano sulla cattedra professori e ospiti illustri tra i quali Umberto Eco Franco Fortini e Giorgio Strehler. La punizione non tardò ad essere proclamata. L’intero Consiglio di facoltà, composto da Albini, Belgiojoso, Bottoni, Canella, Rossi e Viganò, venne sospeso per tre anni e denunciato alla magistratura.
Questi i fatti, relativi al mio coinvolgimento nella lotta degli studenti per cambiare le istituzioni: un coinvolgimento parziale, in difesa della cultura che a mio parere non apparteneva a una sola classe sociale, ma a tutte nel loro insieme. La speranza condivisa era che l’Italia che aveva delineata la sua identità di paese libero dopo la Resistenza, evitasse il rischio di diventare quello che è diventata, un paese che ha messo tra parentesi, come una eredità imbarazzante, la storia del socialismo e delle lotte operaie.
La mia opinione sulle vicende del ’68, in Italia e non solo, è che è stato un movimento ambiguo nei suoi risultati, ma storicamente ricco di risvolti positivi. È servito a promuovere una radicale autocritica nello schieramento di sinistra del quale ha demolito molti miti intaccandone l’autoritarismo che ancora dominava al suo interno. Ha aperto la strada alla “società dei diritti” e alla demolizione di molti steccati che dividevano le forze innovatrici. Ha contribuito alla creazione di una piattaforma interdisciplinare capace di affrontare i problemi della società moderna.
Ha creato tra i giovani uno spirito di solidarietà generazionale che non si è spento negli anni. In Italia le lotte studentesche hanno dato forza alle rivendicazioni sindacali che per una decina d’anni hanno dato al nostro paese il primato europeo per l’efficacia delle loro azioni.
I punti deboli, a distanza di mezzo secolo, risultano evidenti. La pretesa vicinanza alla classe operaia e ai suoi problemi si è rivelata illusoria. La lotta contro la meritocrazia ha assunto aspetti così paradossali da creare per reazione l’attuale eccessiva rivalutazione di un indirizzo che ignora la logica dei privilegi sociali. Proclamando la necessità di una cultura dei diritti non si è dato spazio a una parallela “cultura dei doveri” creando nella società molti sterili conflitti. Demonizzando le forze dell’ordine si è creata una spettacolare pseudo-guerra sofferta, più ancora che dagli studenti, da innocenti che appartenevano alle classi sfruttate.
Certamente il ’68 è un frutto della borghesia, della sua audace capacità autocritica, ma anche della incapacità di andare fino in fondo nei processi ideali che individua. Oggi i problemi della società sono diversi. L’osmosi tra le classi sociali indebolisce le ragioni stesse di una lotta tra entità dai contorni imprecisi. L’enfasi della comunicazione, le macchine che sottraggono il lavoro ai cittadini, l’elefantiasi della burocrazia che rende tutto difficile, il capitalismo finanziario che ha sostituito il capitalismo industriale, il consumismo giunto a una evoluzione allarmante, la crisi ambientale e climatica che si profila in modo sempre più drammatico. Tutto ciò richiede nuove strategie che la cultura e la politica tardano a proporci non ostante siano irrimandabili.
I giovani, spaventati da una situazione che li sta privando anche dei vantaggi dell’assistenzialismo statale e che, per superare il destino della disoccupazione e della sotto-occupazione, puntano sulla emigrazione, per manifestare il loro scontento usano le vecchie armi della occupazione delle scuole, delle riviste di opposizione delle proteste di massa, senza più lo slancio e lo spirito di solidarietà che alimentava il ’68.
La caduta dei grandi sistemi ideologici che in parte discende dal loro uso superficiale e sventato di quegli anni ha creato un vuoto che richiede una presa di coscienza a livello dell’intero pianeta. La antica contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati ha assunto forme diverse ma esiste ancora e da lì, secondo me, bisogna partire per combattere i nemici dell’uguaglianza, della libertà, della bellezza. Perché la terra non diventi, per la leggerezza dei suoi abitanti e per l’abbandono alle pericolose offerte della tecnologia asservita al potere finanziario, un pianeta non più abitabile dall’uomo, occorre combattere una nuova battaglia per la quale il socialismo se non offre ricette infallibili offre però una tradizione di sacrifici e di preziose conquiste.

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