Intervista a Giorgio Benvenuto. Sinistra e sindacato: guardare al futuro senza perdere le proprie radici. La sinistra perde quando non fa più politica di sinistra


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Intervista a Giorgio Benvenuto. Sinistra e sindacato: guardare al futuro senza perdere le proprie radici. La sinistra perde quando non fa più politica di sinistra

Intervista di Patrizio Paolinelli su Jobnews.it

Giorgio Benvenuto Per il suo ruolo di sindacalista e di uomo politico Giorgio Benvenuto ha contribuito a scrivere pagine importanti della storia italiana. E’ stato dirigente della Uil, dove ha ricoperto l’incarico di segretario generale della Uilm, il sindacato dei metalmeccanici. Con Bruno Trentin (Fiom Cgil) e Pierre Carniti (Fim Cisl) è stato fondatore della Flm, il sindacato unitario dei metalmeccanici. E’ stato a lungo segretario generale della Uil e segretario del Psi succedendo a Bettino Craxi.

Oggi tutto si può dire di Benvenuto, tranne che appartenga al passato. È ancora estremamente attivo e partecipa alla vita pubblica del nostro paese. Lo andiamo a trovare a Roma, nelle bella sede della Fondazione Bruno Buozzi di cui è presidente, per parlare dell’attualità e raccogliere le sue opinioni sui temi della sinistra, del sindacato e del lavoro.

Gli ultimi governi a guida PD sono stati assai conflittuali nei confronti del sindacato. Come spiega questa difficoltà di dialogo tra il più importante partito progressista del nostro paese e la rappresentanza del lavoro?

Penso che entrambi abbiano da rimproverarsi qualcosa. In un contesto di globalizzazione e di finanziarizzazione la sinistra per legittimarsi nei confronti del mercato ha ritenuto che criticare il sindacato le procurasse dei vantaggi, pensi ad esempio al tema della flessibilità. Si è così avvalorata l’idea di un sindacato arretrato, privo di una visione moderna, laddove invece l’impresa richiede dinamismo, elasticità e così via. Agli occhi dei lavoratori la sinistra ha dato a volte l’impressione di trascurare le richieste che provenivano del sindacato, giuste o sbagliate che fossero. Il sindacato da parte sua si è diviso, non è stato in grado come un tempo di uscire fuori dai luoghi di lavoro per contribuire ad affrontare e risolvere i problemi della società. In altre parole, ha visto declinare il proprio ruolo di interlocutore della politica. Aggiunga poi che lo stesso processo ha investito il rapporto tra la sinistra e le forze intermedie. Alla fine ognuno di questi attori ha assegnato agli altri un certificato di estraneità che ha portato all’incomprensione attuale.

Incomprensione che non ha affatto giovato alla sinistra visto come sono andate le ultime elezioni.

La sinistra perde quando non fa più una politica di sinistra, quando è più interessata agli applausi degli imprenditori che a quelli dei lavoratori, quando dimentica le aspirazioni e i problemi non solo degli operai – i quali si sentono abbandonati e forse traditi – ma anche del ceto medio. Come se non bastasse, da tempo i partiti di sinistra non hanno più sezioni, non hanno più i loro giornali, comunicano nei talk-show, dove sembra che il confronto avvenga fra portatori di interessi di ceto più che di idee. E insisto, il fatto di non riconoscere più al sindacato il ruolo di interlocutore in grado di trasformare la protesta in proposta ha fatto perdere alla sinistra una sua peculiare caratteristica. Mettete tutto insieme ed ecco perché le ultime elezioni sono andate come sono andate.

C’è stato un evento, una sorta di momento topico all’interno delle dinamiche sindacali che ha determinato l’indebolimento della rappresentanza dei lavoratori nei confronti della politica?

Sì, il decreto di San Valentino sulla scala mobile del 1984. Fu una scelta necessaria in quel momento, ma fu anche l’inizio di una crisi delle relazioni intersindacali non ancora superata. Il referendum che ne seguì sancì la contrapposizione fra una maggioranza e una forte minoranza che bloccò il processo di unità sindacale. Io all’epoca feci di tutto per giungere a un accordo, anzi arrivo a dire che se Enrico Berlinguer fosse vissuto, una soluzione l’avremmo trovata. Andò diversamente ed è stata una sconfitta per tutto il sindacato mentre il mondo andava verso la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia. È dal 1985 che il sindacato non ha più una posizione unitaria, anzi col tempo le divisioni sono persino aumentate e hanno impedito di elaborare proposte, di progredire. Un blocco che si riflette anche nel lessico sindacale. Sempre più spesso si ricorre alla parola “difendere”: si difendono i lavoratori, i giovani, le donne, si difende il Mezzogiorno e così via. Quasi mai si usa la parola “valorizzare”, la quale implica il saper guardare in avanti. Attestarsi su una logica di pura e semplice difesa significa arretrare inesorabilmente sino a rinchiudersi nella torre d’avorio delle certezze e delle garanzie acquisite, perché se si sceglie di “difendere” e basta vuol dire che va bene quello che c’é. ma così si finisce per diventare una forza conservatrice. Divisa e conservatrice.

Da quanto sostiene sembra che sinistra e sindacato siano mondi in regressione. È così?

Purtroppo sì. La sinistra non crede più in se stessa. E anche se le chiavi di lettura della nostra realtà non sono più quelle di cinquant’anni fa, in un mondo di egoismi e di divisioni come quello attuale la sinistra avrebbe delle praterie davanti a sé. A sua volta il sindacato è in una fase di arroccamento e sembra quasi aver paura del futuro. Ecco, come nella vita di tutti i giorni prevale l’individualismo, così anche nella vita del sindacato e della politica prevale una sorta di individualismo difensivo a protezione di rendite di posizione personali. Sindacati e partiti non sembrano più soggetti collettivi, ma aggregati di individualità in competizione fra loro.

Che cosa dovrebbero fare i partiti progressisti italiani per riallacciare il dialogo con quella parte di società da cui sembrano essersi distaccati?

Io sono iscritto al PD. Ma dinanzi a certi momenti della dialettica interna al mio partito rimango sconcertato. Vedo che oggi il confronto politico punta più su come l’avversario sbaglia i congiuntivi piuttosto che sui contenuti. Ad esempio, nella legge finanziaria ci sono tante cose, ma ci si limita a discutere su aspetti di superficie, si punta a emozionare il pubblico, non si entra nel merito. Un altro esempio, il rapporto con l’Unione Europea. Non ci rendiamo conto che serve una battaglia per riportare la dimensione sociale al centro delle politiche europee? Come possiamo tollerare che in Europa ci siano dei paradisi fiscali? Come si può tollerare che in alcuni paesi non sia riconosciuto il diritto alla contrattazione? È evidente che in un’Europa dove esistono regimi fiscali differenziati, dove le regole sindacali e sociali sono diverse si crea una dinamica per la quale i paesi che hanno maggiori diritti finiscono per perderli. Problemi di questa portata non si affrontano né con i comitati elettorali né con consultazioni on-line a base di like e di faccine: servono partiti veri, solidi, strutturati.

Cosa dovrebbe fare il sindacato per tornare a essere un protagonista ascoltato dalla politica?

Innanzitutto occorre ritrovare l’unità sindacale. Non un’unità di facciata, una mera sommatoria di sigle. Ma un’unità che rimetta assieme il paese: il Nord con il Sud, i giovani con gli anziani, il comparto pubblico con quello privato. In secondo luogo il sindacato deve ricostruire la coesione sociale anche ripristinando un rapporto di forza più equilibrato tra lavoratori e datori di lavoro. Perché è vero che oggi il lavoro sta cambiando e che occorre superare la logica del posto fisso, ma bisogna anche mettere il lavoratore nella condizione di valorizzare al massimo le proprie capacità e la propria professionalità. Non solo il datore di lavoro deve avere la possibilità di scegliere il lavoratore, ma anche il lavoratore deve poter fare altrettanto con il datore di lavoro. Oggi il lavoro è molto più frammentato di una volta, è difficile introdurre regole uguali per tutti. Dov’è, allora, che si può realizzare la coesione sociale? A livello dei diritti dei cittadini. Vorrei ricordare lo slogan “Il sindacato dei cittadini”. Ecco, solo così è possibile ricostruire quella solidarietà trasversale a tutte le componenti del mondo del lavoro. Il sindacato deve fare un salto di qualità, deve occuparsi dei lavoratori in quanto cittadini.

Da più parti si sostiene che la contrattazione collettiva è ormai al tramonto e che nelle aziende si debba affermare una contrattazione più personalizzata, un rapporto diretto tra lavoratore e datore di lavoro, perché in questo modo si favorisce la meritocrazia e la valorizzazione delle competenze individuali. È d’accordo con questa impostazione?

No, perché oggi è troppo forte lo squilibrio tra il datore di lavoro e il lavoratore che fa contrattazione individuale. Addirittura penso che il salario minimo stabilito per legge penalizzi i lavoratori. È significativo che, rispetto al passato, oggi si aprano molte meno controversie di lavoro e molte più procedure di conciliazione. La conflittualità tra le due parti non è mai stata sullo stesso piano, ma adesso il datore di lavoro ha armi molto più forti di prima e questa è una delle conseguenze dell’indebolimento dello Statuto dei lavoratori. La flessibilità è stata assunta come un dogma che non si può discutere, ma la flessibilità va contrattata. L’articolo 18, che oggi per i neo-assunti non esiste più, in realtà anche prima veniva usato poco, perché aveva soprattutto un valore di deterrenza. Tempo fa un operaio della Fiat mi spiegava che una volta i lavoratori si sentivano forti per il solo fatto di avere la tessera del sindacato in tasca. Oggi vediamo che non è più così. Per questo ritengo che il sindacato debba adeguare il suo modo di agire alla sempre maggiore parcellizzazione dei rapporti di lavoro e debba trovare modi nuovi per assistere i lavoratori in un mondo del lavoro in cui la mobilità interprofessionale è destinata a diventare la regola nella vita lavorativa delle persone. Ma non è pensabile che il singolo lavoratore contratti alla pari con il datore di lavoro le proprie condizioni.

Contrattazione nazionale o aziendale? C’è un grosso dibattito su questo tema, sia nel mondo sindacale che in quello imprenditoriale. Qual è la sua opinione in proposito?

Ritengo che oggi la contrattazione debba essere più mirata all’azienda perché è più facile trovare un’intesa sul posto di lavoro. Un tempo avevano grande successo le vertenze nazionali, con manifestazioni caratterizzate dalla grande partecipazione dei lavoratori, ma allora il mondo del lavoro era meno parcellizzato e le regole che si scrivevano a livello nazionale si applicavano in quasi tutte le realtà. Oggi conta di più trovare soluzioni che siano in grado di adattarsi alle esigenze delle realtà aziendali, però per questo ci vuole la conoscenza diretta di quelle realtà. Una conoscenza che non proviene certo dai dirigenti in perenne distacco sindacale. Del resto, ricordiamoci che nei suoi anni migliori il sindacato è stato forte grazie ai Consigli di fabbrica, cioè grazie ai sindacalisti che lavoravano dentro le fabbriche. Perché i sindacalisti che hanno più seguito fra i lavoratori sono quelli che agiscono all’interno dei luoghi di lavoro e ne abbiamo un esempio nel pubblico impiego, dove alle elezioni per le RSU si registrano sempre percentuali altissime di partecipazione. Quello è il modello da cui bisognerebbe ripartire.

Come può il sindacato contrattare le condizioni di lavoro in contesti nei quali il lavoro stesso è organizzato attraverso l’intelligenza artificiale o da remote piattaforme digitali?

Il sindacato deve contrattare gli algoritmi perché altrimenti l’organizzazione del lavoro è rimessa soltanto ai computer, i quali, rispetto alle politiche del personale, elaborano in modo acritico gli input che ricevono dalle società di consulenza a cui si affidano gli imprenditori. E così l’individuo finisce per ritrovarsi alla mercé del computer. Ma io ho sempre pensato che l’intelligenza artificiale debba servire da supporto all’intelligenza umana, non viceversa. E qui deve entrare in gioco il sindacato per superare la rigidità dei software, i quali tra l’altro spesso finiscono per rallentare i processi produttivi, anziché velocizzarli. Permettetemi poi di aggiungere che è imminente una nuova ondata di automazione del lavoro di concetto. Se ne parla ormai da tempo. E da tempo studiosi ed esperti sostengono che ci saranno ricadute pesanti sull’occupazione, compresi settori come il pubblico impiego. Cosa sta facendo il sindacato? Evoca questi problemi, sembra esserne consapevole, ma rinvia le decisioni sulle scelte da adottare.

Il ritardo culturale del sindacato che lei ha appena denunciato investe anche altri attori sociali?

Sì, investe il mondo politico e l’intero mondo delle forze intermedie – le cooperative, gli artigiani, la stessa Confindustria. L’associazionismo è in una fase di decadenza, pur avendo davanti a sé un terreno di conquista immenso, una nuova frontiera verso la quale dovrebbe trovare il coraggio di incamminarsi. Detto questo, storicamente le forze di sinistra hanno sempre avuto ben chiaro un principio: il progresso porta vantaggi soprattutto alle classi più deboli perché implica una rottura con i vecchi assetti di potere e perché scardina privilegi che derivano da rendite di posizione legate al passato. Mi pare che questo principio si stia smarrendo.











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