L’orrore delle Fosse ardeatine


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L’orrore delle Fosse ardeatine

La feroce risposta tedesca all’attentato di via Rasella: 335 italiani trucidati dalle SS comandate da Kappler e dal suo aiutante Priebke.

L’ingresso delle Fosse ardeatine Cominciò una corsa contro il tempo per mettere insieme le liste dei disgraziati, svuotarono il carcere di Regina Coeli, dando la precedenza agli ebrei, e poi ai politici e poi si arrivò anche ai detenuti per reati comuni, si misero sull’elenco anche alcuni detenuti che stavano per uscire dal carcere. Le liste furono ordinate dalle Ss, comandate da Kappler con il suo aiutante Priebke, al questore di Roma Caruso, il quale nella foga finì per consegnare cinque nomi in più, 335 invece di 330. La compilazione delle liste durò tutta la notte e tutta la mattina del 24 marzo.
Contemporaneamente Kappler individuò il luogo della mattanza in una cava abbandonata sulla via Ardeatina. Dopo poche ore dall’attentato, il 24 alle 13, i 335 martiri furono fatti entrare cinque per volta dentro la cava con le mani legate dietro la schiena, furono fatti inginocchiare e colpiti alla nuca. Alcuni soldati tedeschi che non riuscivano nella loro parte di boia venivano incitati dall’esempio di Priebke. Quando si accorse che gli erano stati consegnati cinque uomini in più, Kappler decise di assassinare anche quelli, rei “di avere visto quello che non avrebbero dovuto vedere”-.
La mattanza durò più di sette ore. Alla fine, l’ingresso della cava fu minato e i cadaveri vi rimasero sepolti.
C’era anche un prete eroico, don Pietro Pappagallo: è uno dei tanti preti che parteciparono alla resistenza romana, aiutando i partigiani, nascondendo gli ebrei e gli antifascisti, pagando spesso con la propria vita. Don Pappagallo era a Regina Coeli, arrestato dai tedeschi proprio nella sua parrocchia, e fu messo nell’elenco di quelli che furono avviati alle Ardeatine. Oggi la salma dell’eroico sacerdote non è più nel sacrario ma a Terlizzi, suo paese natale.
Alla fine del 24 il comando tedesco annuncia la rappresaglia, a cose fatte, concludendo con le parole “La sentenza è stata eseguita”. Per conoscere i nomi (alcuni di loro sono ancora senza nome) e il numero delle vittime bisognerà aspettare tre mesi, dopo la liberazione di Roma, quando si andrà a scavare sulla cava sull’Ardeatina.
Dopo la guerra si fece giustizia soltanto in parte: il questore Caruso fu fucilato per aver consegnato cinque nomi in più di quelli richiesti; il colonnello delle SS, il feroce Kappler, fu condannato all’ergastolo per aver fucilato quei cinque poveretti. Un ergastolo che scontò per trenta anni quando, malato terminale, evase dall’ospedale militare di Roma.
Priebke, dopo una quarantina di anni trascorsi in tranquillità in un paese dell’Argentina, fu individuato e catturato e quindi condannato a un ergastolo che ha vissuto fino a 100 anni in un appartamento di Roma.
Ancora oggi, a distanza di più di 70 anni, ci sono persone che contestano ai partigiani attentatori di Via Rasella di non essersi consegnati, lasciando così morire 335 innocenti. Oramai la Storia ha accertato la verità incontrovertibile: l’attentato fu un legittimo atto di guerra, contro un nemico dichiarato che occupava nel terrore il territorio patrio. La notizia della esecuzione dell’orribile rappresaglia fu data a cose fatte.
Lo stesso feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, in persona ha chiarito nella sua testimonianza al processo nel novembre 1946, “che non fu attivata alcuna procedura precedente la rappresaglia per fare appello alla popolazione o agli attentatori, e che non venne emesso alcun avvertimento pubblico riguardo la rappresaglia e la proporzione dieci contro uno e che non fu presentata alcuna richiesta ai partigiani di consegnarsi per evitare l’eccidio”.

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