Settantacinque anni sono passati dall’assassinio di Bruno Buozzi. Ecco la cronaca di quelle terribili ultime ore. Gli americani sono alle porte di Roma, i tedeschi sono in fuga verso il nord.


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Settantacinque anni sono passati dall’assassinio di Bruno Buozzi. Ecco la cronaca di quelle terribili ultime ore. Gli americani sono alle porte di Roma, i tedeschi sono in fuga verso il nord.

Bruno Buozzi è rinchiuso nel carcere di via Tasso.
La sera del 3 giugno 1944, davanti al carcere di via Tasso, quattro automezzi vennero parcheggiati. Il piano dei nazisti prevedeva di portar via centosessanta prigionieri, quasi tutti, cioè, ma non tutti (in quelle celle ve n’erano oltre duecento, come annotava Nenni). In realtà, però, quei quattro camion furono in grado di trasportarne non più di centoventi (secondo Kappler; ottanta secondo altri) e la famosa lista messa a punto dagli aguzzini nazisti venne ridimensionata. I primi tre partirono quasi senza particolari problemi. Buozzi venne assegnato al quarto camion. E nacquero i problemi perché i posti non erano sufficienti e in due si salvarono proprio per quell’affollamento eccessivo di passeggeri. I prigionieri provarono ad approfittare di quella situazione ritardando il più possibile le operazioni di carico. Provarono anche a far scivolare nelle retrovie Bruno Buozzi che, al contrario, anche per dare coraggio ai compagni, salì sull’automezzo e si andò a sistemare sul fondo. E così quando due passeggeri vennero fatti scendere per fare posto a due SS, lui risultò troppo lontano per approfittare dell’occasione che il caso aveva concesso.
Quel camion, uno Spa 38 di fabbricazione italiana, piuttosto male in arnese, partì da via Tasso a notte fonda. Risalì da via Labicana, costeggiò il Colosseo, tirò dritto per i Fori Imperiali (all’epoca chiamata via dell’Impero), passò per Piazza Venezia e imboccò Corso Umberto cioè via del Corso, attraversò piazza del Popolo, piazzale Flaminio, si avviò verso via Flaminia, toccò ponte Milvio dove si bloccò per i bombardamenti; si rimise in cammino a velocità sempre più ridotta per via del traffico causato dai tedeschi in fuga, imboccò la Cassia verso il nord e qui venne bloccato di nuovo dalle bombe americane.
La Reuter, nel frattempo, diramava la notizia che Bruno Buozzi era stato spedito al Nord. Con Buozzi, Brandimarte e Sorrentino c’erano anche il tenente Eugenio Arrighi, l’ingegnere Frejdrik Borian (i compagni partigiani socialisti lo conoscevano con il nome di battaglia di Raffaele, lo avevano preso dopo l’attentato di via Rasella, Giuliano Vassalli lo definì più di un fratello), il professore Luigi Castellani, il ragioniere Vincenzo Conversi, il meccanico Libero De Angelis, appena ventiduenne, l’ingegnere Edmondo Di Pillo, il generale Piero Dodi, l’avvocato Lino Eramo, consulente legale del “Messaggero” che lo ricordò come «il nostro amico caro, il nostro compagno fedele, il nostro collaboratore di tutti i momenti», il tipografo Alberto Pennacchi, l’insegnante Saverio Tunetti e l’ “inglese sconosciuto” la cui identità è stata svelata soltanto sette anni fa. Era l’ungherese Gabor Adler, cioè il capitano John Armstrong poiché prestava servizio nel Soe, il braccio operativo dei servizi segreti inglesi. Quel camion, arrancando a passo lentissimo, arrivò dalle parti de La Storta quasi all’alba del 4 giugno. Abbandonò improvvisamente la strada e si inerpicò per 7-800 metri in una stradina di campagna fermandosi davanti al fienile della tenuta Grazioli. Il dramma si sarebbe consumato lì, in poco più di dodici ore.


Bruno Buozzi è rinchiuso nel carcere di via Tasso. La sera del 3 giugno 1944, davanti al carcere di via Tasso, quattro automezzi vennero parcheggiati. Il piano dei nazisti prevedeva di portar via centosessanta prigionieri, quasi tutti, cioè, ma non tutti (in quelle celle ve n’erano oltre duecento, come annotava Nenni). In realtà, però, quei quattro camion furono in grado di trasportarne non più di centoventi (secondo Kappler; ottanta secondo altri) e la famosa lista messa a punto dagli aguzzini nazisti venne ridimensionata. I primi tre partirono quasi senza particolari problemi. Buozzi venne assegnato al quarto camion. E nacquero i problemi perché i posti non erano sufficienti e in due si salvarono proprio per quell’affollamento eccessivo di passeggeri. I prigionieri provarono ad approfittare di quella situazione ritardando il più possibile le operazioni di carico. Provarono anche a far scivolare nelle retrovie Bruno Buozzi che, al contrario, anche per dare coraggio ai compagni, salì sull’automezzo e si andò a sistemare sul fondo. E così quando due passeggeri vennero fatti scendere per fare posto a due SS, lui risultò troppo lontano per approfittare dell’occasione che il caso aveva concesso. Quel camion, uno Spa 38 di fabbricazione italiana, piuttosto male in arnese, partì da via Tasso a notte fonda. Risalì da via Labicana, costeggiò il Colosseo, tirò dritto per i Fori Imperiali (all’epoca chiamata via dell’Impero), passò per Piazza Venezia e imboccò Corso Umberto cioè via del Corso, attraversò piazza del Popolo, piazzale Flaminio, si avviò verso via Flaminia, toccò ponte Milvio dove si bloccò per i bombardamenti; si rimise in cammino a velocità sempre più ridotta per via del traffico causato dai tedeschi in fuga, imboccò la Cassia verso il nord e qui venne bloccato di nuovo dalle bombe americane. La Reuter, nel frattempo, diramava la notizia che Bruno Buozzi era stato spedito al Nord. Con Buozzi, Brandimarte e Sorrentino c’erano anche il tenente Eugenio Arrighi, l’ingegnere Frejdrik Borian (i compagni partigiani socialisti lo conoscevano con il nome di battaglia di Raffaele, lo avevano preso dopo l’attentato di via Rasella, Giuliano Vassalli lo definì più di un fratello), il professore Luigi Castellani, il ragioniere Vincenzo Conversi, il meccanico Libero De Angelis, appena ventiduenne, l’ingegnere Edmondo Di Pillo, il generale Piero Dodi, l’avvocato Lino Eramo, consulente legale del “Messaggero” che lo ricordò come «il nostro amico caro, il nostro compagno fedele, il nostro collaboratore di tutti i momenti», il tipografo Alberto Pennacchi, l’insegnante Saverio Tunetti e l’ “inglese sconosciuto” la cui identità è stata svelata soltanto sette anni fa. Era l’ungherese Gabor Adler, cioè il capitano John Armstrong poiché prestava servizio nel Soe, il braccio operativo dei servizi segreti inglesi. Quel camion, arrancando a passo lentissimo, arrivò dalle parti de La Storta quasi all’alba del 4 giugno. Abbandonò improvvisamente la strada e si inerpicò per 7-800 metri in una stradina di campagna fermandosi davanti al fienile della tenuta Grazioli. Il dramma si sarebbe consumato lì, in poco più di dodici ore.

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