Specchi. Quaderni del Giulio Cesare, n. 1 dicembre 2018


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Specchi. Quaderni del Giulio Cesare, n. 1 dicembre 2018

Pubblichiamo il testo di Giorgio Benvenuto "Riflessioni sul libro di Luca Tarantelli. Il sogno che uccise mio padre"

Pubblichiamo il testo di Giorgio Benvenuto Quando si pensa all’impegno di Ezio Tarantelli risulta difficile distinguere lo studioso dall’uomo capace di amicizia e di infondere fiducia nel comune sforzo di affrontare problemi complessi come furono quegli degli anni ’70 ed ’80.
La sua umanità spiega bene quel vincolo familiare così forte che emerge dal racconto che il figlio Luca fa di suo padre nel bellissimo libro “Il sogno che uccise mio padre”. La storia personale spiega il perché Ezio Tarantelli ha lasciato un grande rimpianto proprio perché in lui la vita degli affetti e quella pubblica, fra studio e partecipazione al confronto politico ed economico, si intrecciano in modo armonico consegnando al ricordo lo stesso sorriso, la stessa carica di umana simpatia.
Spicca il valore della famiglia , più forte delle avversità della vita, scuola di comportamento e di legami che restano saldi dopo le prove cui vengono sottoposti. Un valore che non teme la lontananza, che fa del cuore un motore altrettanto valido della intelligenza e del sapere.
E si commette un errore quando si collega la sua figura esclusivamente alla vicenda della scala mobile. Tarantelli era lo studioso che “voleva lavoro per tutti”, le sue proposte poggiavano su un disegno di sviluppo economico e sociale ben più ampio. Aveva intuito prima di tanti altri ad esempio che il movimento sindacale doveva spendere energie e forza contrattuale e propositiva non solo sul piano nazionale ma soprattutto su quello europeo, forte delle sue esperienze internazionali. Aveva compreso che di fronte a cambiamenti sempre più marcati e profondi sul piano economico e dei poteri i ruoli del riformismo politico e sindacale non potevano rimanere ancorati al passato, alle fissità ideologiche, a schemi superati della lotta politica che costringevano i lavoratori e le loro rappresentanze ad un ruolo difensivo sempre più angusto, sempre più datato.
Emblematico di questo modo di leggere la realtà del tempo è l’inizio del suo libro “Il ruolo economico del sindacato” “…le Trade Unions compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito ad un impiego irrazionale della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano ad una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione…”.
Nei periodi di svolta , dunque, ripiegare in trincea è un comportamento perdente. Questo valeva allora come sempre nella esperienza del movimento sindacale.
E non a caso Tarantelli vede nel salario e nel ruolo di autorità salariale del sindacato uno degli snodi di un più ampio compito da svolgere che chiama in causa gli altri protagonisti dello scenario politico ed economico, Stato ed imprenditori.
Ma questa interazione fra vari soggetti Istituzionali, politici e sociali trova giustificazione in una evoluzione della vita economica che da allora non si è più fermata e che vede l’ingresso di altri fattori, finanziari, culturali, oggi anche prepotentemente tecnologici che ne complicano la comprensione e impongono una duttilità culturale e di comportamenti non facili da assumere.
Nel suo percorso di vita Tarantelli rimane inoltre coerente ad un altro punto di riferimento che ritiene essenziale: quello della unità delle forze sindacali. Non c’è un passaggio della sua attività di studioso, di consulente, perfino di polemista che possa far pensare ad un compiacimento per l’emergere di divisioni nella sinistra politica e sociale. Di certo non è il suo obiettivo. “Né pentito, né soddisfatto” ebbe a dire al Manifesto dopo il varo del decreto sulla scala mobile.
Questa accortezza spiega la stima che ha circondato la sua persona nei differenti ambienti nei quali ha offerto il suo grande contributo di idee e di soluzioni, compresa la predeterminazione dei punti di scala mobile.
E’ bellissima e davvero calzante la interpretazione del suo modo di agire data da Federico Caffè: “Tarantelli fa scelte di campo ma non rinuncia a ragionare a tutto campo…”.
E lo ha fatto questo lavoro di approfondimento della realtà economica come effettivamente era con grande semplicità ma anche con formidabile efficacia.
E non senza ironia. C’è un piccolo capolavoro, dimenticato per lo più, che vale la pena di citare ed è il suo scritto “Superior stabat Agnus” nel quale si racconta la rottura fra le Confederazioni sul nodo della scala mobile, certamente drammatica, ma trattata con una leggerezza che postulava proprio per questo l’auspicio di un superamento delle divisioni esistenti.
Il latino aiuta a smorzare la pesantezza di quella, per certi versi, sconvolgente esperienza sindacale. I personaggi di conseguenza sono tratteggiati riecheggiando le lotte politiche dell’antica Roma. Tarantelli si reinventa …Tito Livio e così Agnelli diventa l’Agnus del titolo, Berlinguer e Craxi diventano Heynricus e Beptinus; Lama, Carniti e Benvenuto novelli tribuni della plebe sono individuati come Lucianus Lamina, Pierius Carnitius e Georgius Quibenevenit. E lo scontro esploso dal febbraio 1984 diventò la “magna turba”.
E’ il segno caratteristico della personalità di un uomo che crede nel suo lavoro ma con animo libero tanto da mettere in satira episodi che erano finiti per alimentare un tremendo ma sterile clima di odio, di incomunicabilità, di perdita del buon senso. E che, al tempo stesso, precludevano la via utile a cogliere delle opportunità che saranno invece colte anni dopo la sua tragica uccisione, con la concertazione degli anni ’90, voluta da Ciampi, che ha salvato allora il Paese e ha frenato il dramma di una disoccupazione mai così estesa e senza apparente speranza.
Proprio per tale motivo la sua morte, come quella di Enrico Berlinguer, ha impedito in quegli anni tanto tormentati di poter contare su protagonisti che potevano probabilmente evitare una resa dei conti come quella che ha portato al referendum del 1985. E che mi spinge a fare un paragone azzardato con un episodio, tanto differente, accaduto nel 1948, vale dire l’attentato a Togliatti. In quei terribili frangenti, Togliatti riuscì, proprio perché vivo, ad evitare che l’emozione del momento si traducesse in una deriva ancor più pericolosa, imponendo al suo gruppo dirigente il senso della misura. Ed è molto verosimile che se, ad esempio, Berlinguer fosse sopravvissuto avrebbe impiegato il suo prestigio ed il tempo che era rimasto prima del voto, per cercare una soluzione che era a portata di mano.
E proprio perché Tarantelli vedeva nelle sue proposte il mezzo per affrontare le grandi questioni economiche, dello sviluppo, dell’etica, delle riforme, non è fuori luogo riflettere sulle conseguenze di un confronto-scontro sulla scala mobile che ha occupato più un intero decennio. Cosa si è perso in questo modo se non la percezione di quello che stava cambiando nella società italiana e nel mondo, accumulando ritardi che in seguito ha visto non solo il riformismo italiano inseguire i suoi ritardi ma finire in uno stato di sudditanza culturale e politica nei confronti del liberismo. Non si è capito il significato più profondo della caduta del muro di Berlino; non si è compreso l’avvio della globalizzazione come si doveva; non si è valutato per tempo il peso dello strapotere di una finanza internazionale che scavalcava confini e prerogative degli Stati; la stessa quarta rivoluzione industriale ha colto di sorpresa il mondo sindacale e la cultura di sinistra. Un atteggiamento mentale che certamente Ezio Tarantelli non avrebbe condiviso. Né questo, né il timore di confrontarsi con problemi nuovi. La forza e la passione del suo pensiero e del suo impegno concreto sarebbero invece state preziose per tutti.

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