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L'italia di ieri, di oggi e di domani.

FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

di Andrea Coco Di Smart working se ne parlava da molto tempo, almeno da venti anni, ovvero da quando fu raggiunto l’accordo sul telelavoro, fermo restando che non tutte le aziende erano favorevoli alla sua applicazione. A superare le molte resistenze, a raggiungere il picco degli otto milioni di lavoratori, ci ha pensato il Covid, un evento che superato a forza i molti ostacoli presenti come il suo discutibile nome (falso anglicismo made in Italy), la mancata applicazione della legge 81/2017, che l’ha introdotto, e l’assenza dell’istituto del Lavoro Agile nei contratti di lavoro.  Nonostante tutto, il Lavoro Agile (questo il suo nome in Gazzetta Ufficiale) ha riscosso successo, anche se per alcuni è semplicemente lavoro da casa e per altri una vacanza dal pubblico impiego. Tuttavia, i rischi che porta con sé sono molteplici, come la possibilità di un nuovo business bug, il reverse back dell’urbanizzazione e della storica emigrazione interna, il suicidio di smart city e di coworking. Infine, il ritorno trionfale dell’unico lavoratore non smart per eccellenza: l’operaio. Il cambiamento non si ferma qui, ma è indispensabile un nuovo accordo perché lo smart working non diventi robot working.  Giuseppe Mele, fiorentino di nascita, veneto e romano d’adozione, studi tra Bologna, Firenze e Mosca, giornalista pubblicista, ha lavorato per trent’anni nelle aziende tecnologiche dell’informatica privata e pubblica e delle telecomunicazioni, vivendone per un decennio le vicende sindacali. Ha scritto Letture Nansen (in russo), Digital Renz Akt, Renzaurazione.
   10 Aprile 2021

GIUSEPPE MELE Smartati. Gli «sbandati» del lavoro agile: dal telelavoro allo smart working ed. goWare, 2020


di Andrea Coco Di Smart working se ne parlava da molto tempo, almeno da venti anni, ovvero da quando fu raggiunto l’accordo sul telelavor ...
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Sono state in numero di 554.340 le denunce d’infortunio pervenute all’Inail nell’anno 2020; oltre ottantamila in meno rispetto al 2019, che ha registrato 641.638 casi. Le denunce con esito mortale, al contrario, hanno avuto un incremento considerevole: da 1.089 casi del 2019 a 1.270 del 2020. Tale numerosità non comprende le denunce d’infortunio da Covid-19, che nell’anno nero della pandemia ha registrato 131.090 casi ai quali si aggiungono 423 decessi. Sul fronte delle malattie professionali nel 2020 si contano 45.023 denunce, erano state 61.310 nel 2019. Sono dati statistici pubblicati dall’Inail sul proprio sito. Dal dicembre 2016, infatti, l’Inail mette a disposizione dei cittadini, delle imprese, dei sindacati, un set di dati pubblici con licenza IODLv2.0 in formato aperto e senza restrizioni per il riutilizzo: un patrimonio che costituisce un’interessante opportunità di studio soprattutto per la sua valenza sociale e scientifica. Si tratta di dataset statistici che contengono dati elementari relativi al singolo caso di infortunio e di malattia professionale; dataset statistici con dati aggregati su temi particolari; dataset gestionali che riportano informazioni sulle sedi dell’Istituto. Di particolare interesse e facile consultazione e analisi sono quei dati di tipo statistico descrittivi del fenomeno infortunistico che l’Inail mette a disposizione mediante tabelle nazionali e tabelle regionali pubblicate con cadenza mensile e riguardanti le denunce d’infortunio, le denunce d’infortunio con esito mortale e le denunce di malattia professionale. Mensilmente, attraverso la tabella nazionale e ogni singola tabella regionale, è possibile verificare e valutare l’andamento del fenomeno infortunistico e delle malattie professionali distribuito per genere, classe d’età, luogo e modalità di accadimento, settore di attività economica, gestione tariffaria, grande gruppo tariffario, luogo di nascita dell’infortunato (compreso dunque i cittadini di origine europea ed extraeuropea che lavorano in Italia) e per settore ICD-10 nell’ambito delle malattie professionali.  Di grande utilità sociale e interesse scientifico sono, inoltre, le pubblicazioni di approfondimento corredate da dati statistici che l’Inail mette periodicamente a disposizione su determinati settori economici, particolari modalità d’infortunio e specifiche categorie di lavoratori e lavoratrici. Si tratta, dunque, di numeri, indicatori e pubblicazioni che offrono una visione globale del fenomeno; accentrata però in una dimensione nazionale e regionale. In tema di numeri e indicatori, da qualche tempo ormai la letteratura scientifica attesta il valore democratico assunto dalla statistica nella nostra epoca. Lo statistico Luigi Biggeri, già Presidente dell’Istat e ora professore emerito presso l’Università LUISS di Roma, ha evidenziato il ruolo cardine della statistica in una società democratica e la sua funzione strategica per le decisioni a tutti i livelli. Enrico Giovannini, anch’egli già Presidente dell’Istat e adesso professore ordinario di Statistica Economica presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha recentemente dichiarato che la disponibilità di dati arricchisce la conoscenza dei fenomeni sociali, ambientali, economici che caratterizzano la nostra società e di conseguenza sostiene il miglioramento della vita dei cittadini. Egli ha addirittura coniato il nuovo termine di “Societistica”: «se la Statistica - egli scrive - è “scienza dello Stato” proprio perché lo studio dei dati è stato sviluppato per amministrare meglio lo Stato, oggi, la statistica serve a tutta la società, da cui “Societistica”. Intendo dire che le decisioni delle imprese, delle organizzazioni non governative, della società civile, ma anche di noi cittadini, sono sempre più basate su dati». Nell’ambito degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, però, la statistica assume anche una funzione peculiare: raffigura e mantiene in vita nella società la memoria dei lavoratori e delle lavoratrici ammalati, feriti o uccisi dal lavoro. Un valore democratico e un ruolo storico che in questo caso pone la statistica come fattore potente e decisivo nella presa di coscienza collettiva di un fenomeno la cui drammaticità non accenna a diminuire nonostante il grado di perfezione raggiunto dagli strumenti della prevenzione e della formazione. Non basta, allora, concentrare l’attenzione sulle risorse prevenzionali e formative, sulle quali pure bisogna continuare a riflettere criticamente; forse, per una più efficace azione di contrasto, è necessario cominciare a ragionare sull’informazione ossia sulla diffusione mediatica del fenomeno e sulla consapevolezza della sua esistenza. Nel campo dell’informazione l’Inail deve e può fare di più, deve e può dirci molto di più di quanto già non dica. Potrebbe, per esempio, e dovrebbe rilevare, elaborare e proiettare l’informazione statistica non solo in ambito nazionale e regionale ma anche provinciale e comunale. Decentrare il più possibile la conoscenza globale del fenomeno infortunistico significa ampliare il valore democratico e il ruolo storico della statistica sugli infortuni e le malattie professionali con l’effetto di seminare e coltivare la consapevolezza della sua esistenza nel campo comunitario. Fino a quando il fenomeno sarà presentato e rappresentato nella sua dimensione nazionale e regionale, rimarrà lontano dalle forze economiche, sociali e politiche operanti nei comuni e nelle province; lontano da enti e istituzioni decentrate; lontano dalle agenzie educative e dai mezzi di comunicazione locali. Apprendere che a Milano, nel 2020, le denunce d’infortunio sono state 38.890 ma non sapere a quali categorie appartengano questi lavoratori e lavoratrici, che età abbiano, il genere, il settore di attività economico in cui prestano la propria opera, le cause dell’infortunio, non avrà nella società milanese lo stesso impatto che invece avrebbe la consapevolezza acquisita mediante la conoscenza di questi indicatori monitorati a livello locale. Le imprese, i sindacati, la politica, le associazioni, le scuole, i media locali devono poter analizzare l’andamento del fenomeno infortunistico e delle malattie professionali nella provincia in cui accadono; devono poter esaminare le cause più significative d’infortunio e di malattia professionale accaduti nel territorio per pervenire a una sempre più esatta individuazione del fenomeno infortunistico e formulare proposte anche di carattere specifico circa gli accorgimenti e le misure di prevenzione più idonee da adottare in sede locale in base alla legislazione vigente.  Si tratta di un diritto che va garantito, di una possibilità che va sfruttata, di un valore democratico che va espanso, di una funzione storica e sociale che va diffusa, di una molecolare presa di coscienza che rafforza la visione collettiva del fenomeno. Del resto, per l’Inail, l’elaborazione e la diffusione di Tabelle mensili provinciali distribuite per comune non costituirebbero lavoro aggiuntivo né richiederebbero nuovi oneri giacché la filiera di formazione del dato statistico, utile per la compilazione della Tabella mensile nazionale e della Tabella mensile regionale, trae origine proprio dalle unità operative territoriali dell’Istituto, le quali raccolgono dati amministrativi che sono in seguito caricati su archivi statistici dedicati. Da questi ultimi archivi sono poi elaborate le statistiche sull’infortunistica rese disponibili.  Poiché l’Inail stesso manifesta nel proprio sito la disponibilità a raccogliere le segnalazioni degli utenti-utilizzatori dei dati statistici con suggerimenti di miglioramento, ecco una proposta: rendere mensilmente disponibili i dati statistici comunali e provinciali sugli infortuni e le malattie professionali fornendo così alla comunità locale, come strumento di studio, una documentazione territorialmente obiettiva, condivisa e coerente.  Il decentramento dei dati statistici sugli infortuni non solo indurrebbe la politica nazionale, spinta dai territori, a una maggiore attenzione sul tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ma garantirebbe pure quella necessaria informazione statistica democratica oggi sempre più necessaria in una società e in un mondo del lavoro in continua trasformazione. Del resto, com’è stato autorevolmente affermato dal prof. Biggeri, «l’informazione statistica è veramente una risorsa soltanto se è completa e se è prodotta, conservata e diffusa con efficienza ed efficacia».
   17 Febbraio 2021

"Perché l’Inail con la statistica può (e deve) dirci molto di più sul fenomeno infortunistico" di Michelangelo Ingrassia


Sono state in numero di 554.340 le denunce d’infortunio pervenute all’Inail nell’anno 2020; oltre ottantamila in meno rispetto al 2019, che ...
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Fra transizione e trasformazione L’anno della Liberazione è stato forzatamente incluso e stemperato dalla storiografia nella lunga periodizzazione storica definita generalmente “della transizione”, che inizia nel 1943 e termina nel 1948 con il passaggio dall’Italia monarchica e fascista all’Italia repubblicana e costituzionale. Il concetto storiografico di “transizione”, tuttavia, contrasta vigorosamente con la rappresentazione storica della “Liberazione”. La transizione presuppone un mutamento storico limitato, nel quale convivono forma e sostanza della continuità e della discontinuità con il passato. La Liberazione, invece, implica un mutamento storico radicale, che non ammette soluzione di continuità con il passato da cui ci si vuole appunto liberare e contro il quale si resiste e insorge. Incastrare il 1945 all’interno di un ciclo storico e ridurlo a uno dei molti momenti di un’epoca di transizione, equivale a disconoscere la carica emotiva e politica di assoluta rottura che l’anno della Liberazione contiene. Il 1945, infatti, possiede una sua formidabile “unicità” storica, rispetto al 1943 e al 1948, che lo distingue nel tempo storico compreso tra le due date; interpreta quello che i tedeschi definiscono Zeitgeist, spirito dei tempi. Il 1945, insomma, rompe violentemente con il passato e irrompe tra le macerie della vecchia storia con una propria volontà di potenza rivoluzionaria e morale, creatrice di una storia nuova. Nel 1945 finiva una guerra che era stata il campo di battaglia dei continenti ideologici che si erano sedimentati nella geografia sociale e politica mondiale del Novecento. Il liberalismo e il comunismo avevano sconfitto, uniti, il nazifascismo. L’immane conflitto aveva tuttavia spianato il cammino a una tendenza ideologica che anch’essa, come il liberalismo e il comunismo, veniva da lontano: quella della democrazia radicale, sociale, che nel corso dell’Ottocento aveva conteso la scena al liberalismo, al comunismo e al nazionalismo mediante il riformismo sociale francese, il laburismo inglese, il socialismo della cattedra tedesco, la democrazia rivoluzionaria italiana. Sconfitta ed eliminata nel primo dopoguerra dai fascismi, questa tendenza diventa energia intellettuale nell’antifascismo, proponendosi di trasformare l’alleanza militare tra liberalismo e comunismo in una cultura politica moderna, fondata sulla sintesi democratica tra individuo e comunità, capitale e lavoro, riforma e rivoluzione, giustizia sociale e libertà personale. È quest’idea politica e sociale della democrazia che il vento della Liberazione agita nel 1945, quando sconfitto ed eliminato dalla storia il nazifascismo occorre dare un orizzonte politico inedito all’alleanza militare tra liberalismo e comunismo. In questo senso non la transizione ma la Liberazione incarnava lo spirito del 1945. Elemento tangibile della liberazione era non la mediazione ma la trasformazione. Lo spiega Hobsbawm scrivendo che: «tutte le tre aree del mondo procedevano nell’epoca postbellica con la convinzione che la vittoria sulle nazioni del Patto tripartito, acquisita con la mobilitazione politica antifascista e con indirizzi politici rivoluzionari, come pure col ferro e col sangue, aprisse una nuova epoca di trasformazione sociale». Se la versione politica della trasformazione sociale era la rivoluzione democratica, la sua manifestazione economica stava nel principio dell’iniziativa pubblica. È ancora Hobsbawm a evidenziarlo osservando che «dopo il 1945 tutti questi paesi respinsero nelle intenzioni e nei fatti l’economia di mercato e aderirono ai principi della direzione pubblica e della pianificazione statale» dell’economia. È questo spirito di liberazione e di trasformazione del 1945 che sospinge popoli e nazioni verso la democrazia radicale. Nella Gran Bretagna del 1945 a vincere le elezioni di luglio non sono i conservatori di Churchill ma i laburisti di Clement Attlee con la parola d’ordine never again, mai più, scagliata contro la società dei pochi privilegiati e della disoccupazione di massa. In breve tempo, e abbandonando il vecchio principio del gradualismo, il governo laburista riuscì a concretare il socialismo dentro la democrazia: i settori dell’energia elettrica, della sanità, dell’acqua, dei trasporti furono tutti nazionalizzati; il Welfare State potenziato; una poderosa azione riformista rivoluzionò l’intera società britannica realizzando riforme senza precedenti nella storia del Regno Unito. Il governo di Attlee si era richiamato al senso di comunità e aveva mobilitato il sentimento collettivo del popolo, che in guerra aveva resistito alla minaccia nazista e ai suoi terribili bombardamenti. Non a caso è significativamente intitolato The Spirit of ’45 l’interessante documentario che il regista Ken Loach ha dedicato alla storia del primo governo laburista inglese. Anche in Belgio, nei Paesi Bassi e nei paesi scandinavi è praticata una trasformazione sociale che caratterizzerà finanche il mondo decolonizzato e l’Europa dell’est, naturalmente con tutti i limiti che la storia registra e che attendono ancora di essere analizzati e contestualizzati fuori dallo schema della “Guerra fredda”. Pure in Francia, annota Stéphane Hessel rievocando le conquiste sociali della Resistenza oggi rimesse in discussione e abolite, «a partire dal 1945, dopo una spaventosa tragedia, le forze in seno al Consiglio della Resistenza si votano a un’ambiziosa risurrezione. È allora, rammentiamolo, che nasce la Sécurité sociale così come la Resistenza l’auspicava, come il suo programma prevedeva». Nell’anno della Liberazione pure in Italia lo spirito del 1945 ispirava uomini, movimenti e idee. Aveva cominciato a manifestarsi nelle repubbliche partigiane, che sperimentarono l’autogoverno democratico in quel laboratorio politico che anche fu il movimento partigiano; nelle leghe sindacali, che organizzarono le lotte sociali nel Meridione; nei Comitati di Liberazione Nazionale sorti in ogni regione, in ogni città, in ogni azienda ed esaltati da Piero Calamandrei, il quale all’indomani dell’insurrezione popolare ne rivendica la funzione rivoluzionaria affermando che: «durante il periodo della lotta clandestina le sole forze politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste stesse forze, e a esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il nuovo Stato italiano. A esse sole: questo è uno dei punti su cui occorre avere idee chiare». Si tratta di movimenti sempre più dinamici, che spingono in direzione non di un’ordinaria transizione ma di una straordinaria trasformazione della vecchia realtà. In questo senso si può dire che con la Liberazione del 25 aprile 1945 erompeva una domanda rivoluzionaria di grande trasformazione delle strutture politiche, sociali, economiche, culturali, istituzionali del paese. Morto l’8 settembre 1943 lo Stato liberale e monarchico generato nel 1861 dalla soluzione moderata del Risorgimento, liberata dal nazifascismo la Patria, si trattava adesso di ricostruire una nuova Italia con i materiali culturali e politici forgiati nelle fucine del Risorgimento e della Resistenza; scolpendo, nel cantiere della Costituente, la roccia della democrazia rivoluzionaria risorgimentale con gli strumenti di autogoverno e di autogestione temprati dalla Resistenza. Se l’Italia era contemporaneamente attraversata da una tendenza alla continuità del vecchio Stato, che rimetteva in discussione la “costituzione provvisoria” già approvata nel giugno 1944, tuttavia lo spirito del ’45 si espandeva vigorosamente sulla scia dell’insurrezione armata e dell’avvincente immagine di trasformazione che essa ispirava alle masse popolari. È in questo scenario politico generato dall’insurrezione armata che entra in azione Ferruccio Parri. Il Governo della Liberazione Tornato direttamente dal campo di battaglia della guerra partigiana, che gli altri leader politici avevano vissuto da lontano; esponente di punta dell’unico partito che non aveva alcun legame con il passato prefascista, il Partito d’Azione; estraneo al sistema politico prefascista del quale invece Bonomi, Nenni, De Gasperi, Croce avevano a vario titolo fatto parte (alcuni addirittura a contatto persino col Mussolini ancora socialista, altri sostenendolo col voto in Parlamento fino al 1925), Ferruccio Parri è l’uomo politico nuovo che incarna e interpreta lo spirito del 1945 italiano. Ancor prima di essere indicato come Presidente del Consiglio, aveva pubblicamente affermato da Roma che «in virtù della guerra partigiana si è determinata una situazione profondamente diversa da quella che ispira la politica attuale, e noi siamo venuti per rappresentare al governo la necessità che la politica italiana si adegui alla situazione nuova [...] il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento». Con questa convinzione ideale Parri accoglie la richiesta formulata dai sei segretari dei partiti del CLN di presiedere il primo governo dell’Italia liberata. Mobilitando il mito storico e politico del secondo Risorgimento, s’inserisce nella sfida tra continuità e rottura, transizione e trasformazione, prefiggendosi d’interrompere e rompere la tendenza alla continuità e alla transizione. Indicative le dichiarazioni che accompagnano il suo esordio e nelle quali risuona l’eco del suo prediletto Giuseppe Mazzini, che nel discorso pronunciato il 10 marzo 1849 all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, aveva esaltato l’armonico legame tra governo e popolo. Anche Parri, dopo avere ricordato che il suo governo aveva origine dal popolo, dichiarava nel suo primo discorso da Presidente che «Governo e popolo sono la nostra idea, non sono due entità distinte e quasi avverse. Questo governo [...] è governo di popolo e deve governare per il popolo: tutto il popolo, senza distinzione di partiti e soprattutto oltre i partiti, senza distinzioni di regioni». Ancora prima si era appellato a quegli uomini e donne che rappresentavano la base militante e combattente della guerra partigiana; lo ricorda Alessandro Galante Garrone che racconta: «il 14 giugno 1945, durante le consultazioni per dar vita a un nuovo governo, in una saletta di Montecitorio Parri iniziava il suo discorso con queste parole: “io sono qui il signor partigiano qualunque”». Queste immagini del secondo Risorgimento, del partigiano comune, del governo oltre i partiti, sollevano consenso negli ambienti più diversi e anche lontani dallo stesso Parri e dal suo partito. Sono i riverberi dell’entusiasmo popolare che accoglie e saluta in Ferruccio Parri il partigiano qualunque, l’uomo onesto, l’eroe popolare, il simbolo della Resistenza. Un entusiasmo che si lega all’ardore proveniente dalla base partigiana operante nei Comitati di Liberazione, militante nei partiti antifascisti, ritornata nelle case, nelle fabbriche, nei campi, negli impieghi, nella quotidianità. È indubbio che il sentimento di attesa che si diffuse a livello popolare tra la fine del governo Bonomi e l’inizio del governo Parri abbia contribuito a determinare nel paese il bisogno psicologico di un fatto nuovo, da cui ricominciare. Questo bisogno psicologico, l’entusiasmo dell’opinione pubblica, l’ardore della base partigiana conferiscono a Parri, nelle prime settimane di vita del suo esecutivo, un carisma che egli tenta di rappresentare . Questo elemento carismatico Ferruccio Parri lo riteneva necessario per alimentare, diffondere e difendere lo spirito del 1945: il valore della lotta partigiana come guerra di Liberazione anche politica, la Resistenza come rivoluzione democratica, l’unità antifascista come soggetto collettivo d’ideali comuni. È stata biasimata a Parri un’attenzione eccessiva alla pedagogia civile piuttosto che ad altre questioni ritenute più importanti; si sottovaluta, però, il fronte culturale e ideologico della battaglia politica che Parri conduce nei cinque mesi del suo governo. Come contrastare la tendenza politica alla continuità del vecchio Stato e alla transizione se non popolarizzando il significato della Resistenza? Parri non perde occasione, prima e durante il suo mandato, di appellarsi al sangue dei caduti, alla dura lotta del partigiano, agli ideali per i quali tanti giovani avevano sacrificato la vita; per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importanza della Costituente nel costruire il presente e il futuro del Paese. All’indomani della formazione del suo governo, il 23 giugno, in un radiomessaggio indirizzato al popolo italiano, dichiara: «voi, papà e mamme d’Italia, alle prese con lo spinosissimo problema giornaliero del pranzo e della cena, voi vedete in prima linea le necessità materiali. Lasciate che io metta in prima linea il lato morale [...] è la premessa di tutto, la premessa di ogni risurrezione. Abbiamo bisogno di una lunga e tenace opera di educazione civile che ci liberi da un triste passato e da antiche eredità, che dia agli italiani il senso della serietà morale [...] Ed anche il problema politico è d’importanza primordiale. La Costituente, papà e mamme d’Italia, non sfama i vostri figli. Ma se noi non arriviamo, e presto e ordinatamente, a dare all’Italia un nuovo assetto organico, perdiamo il frutto della nostra liberazione, perdiamo la possibilità per domani di governare, di amministrare e di ricostruire, perdiamo la stessa libertà, ed i nostri caduti saranno caduti invano. Per questo ci hanno chiamato e ci siamo chiamati il governo della Costituente, perché la Costituente sarà il coronamento della lotta di liberazione, il fondamento della nuova società italiana, prologo della nuova storia». In questo richiamo emozionante alla forza morale, all’educazione civile, al popolo dei papà e delle mamme alle prese con le esigenze materiali, al sangue dei caduti, al prologo di una nuova storia, c’è tutto lo spirito del 1945 italiano che Parri porta al Viminale insieme all’esperienza unitaria della guerra di Liberazione e alla parola d’ordine del primo e del secondo Risorgimento: la Costituente. Secondo l’interpretazione corrente Parri si sarebbe lasciato ingenuamente ingannare dai partiti credendo davvero che il suo sarebbe stato il “governo della Costituente”, ossia della rivoluzionaria svolta democratica proiettata di là del vecchio regime liberale. Non si tiene in conto, però, che Parri aveva già vissuto la drammatica esperienza del primo dopoguerra italiano, che pur avendo sprigionato una situazione rivoluzionaria nello stesso momento in cui il vecchio Stato liberale deperiva in una crisi mortale, era poi sboccato nel fascismo per l’inadeguatezza del riformismo, l’inconcludenza del massimalismo e l’esiguità del movimento democratico. Ora, nel 1945, quella situazione storica si ripeteva ma non gli sfuggiva che il quadro era mutato: il fascismo sconfitto, lo Stato liberale esaurito, l’antifascismo potente e consacrato da una vittoriosa insurrezione armata che doveva essere proseguita politicamente. Ed è quello che tenta di fare: la liberazione politica dopo la liberazione armata. L’1 settembre 1945, al primo congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale Alta Italia, dirà alla platea dei partigiani: «voi avete il dovere di riuscire a mantenere la collaborazione di gruppi sociali e di partiti diversi su un punto di incontro e di equilibrio, che è il solo modo di dare il vostro efficace contributo all’opera di ricostruzione [...] Se riuscite a mantenere questa posizione centrale di equilibrio della vita politica italiana [...] se riuscite ad esser capaci voi partiti, voi tutti partiti, di una autolimitazione delle vostre possibilità [...] è il solo modo [...] per arrivare alla Costituente. Vi è dunque [...] uno sforzo di contemperamenti di situazioni particolari di partiti, che vi aspettano, e se voi riuscirete, darete una prova che sarà la seconda dopo quella che avete dato, di capacità di liberazione del popolo italiano: la prova della sua maturità politica». Né a Parri sfuggiva che la Resistenza subiva il condizionamento degli Alleati, soprattutto dopo che a Roosevelt era succeduto Truman, e dei partiti, ancora una volta incapaci di gestire un’autentica situazione rivoluzionaria e tarlati dalla vocazione partitocentrica (quando non partitocratica). Proprio per questo egli, accettando l’incarico di Presidente del Consiglio, pone come condizione politica la realizzazione della Costituente, che altro non significava se non la realizzazione del mandato politico elaborato nel giugno 1944 dai partiti antifascisti uniti e solennemente approvato dal governo allora in carica. Tornando a quella parola d’ordine originaria, Parri tenta di bloccare ai partiti le vie di fuga in avanti e in direzione opposta che mostrano di voler imboccare, e indica la via dell’antifascismo unito in una sola e compatta forza protesa verso la trasformazione. Come scrive Giorgio Vaccarino, insomma, «tutta la storia del governo Parri è una lotta fra i disegni, per quanto possibile avanzati, di una ricostruzione democratica e le soluzioni a volta a volta compromissorie che la situazione imponeva». Una lotta rivelatrice delle posizioni che maturarono all’interno della Resistenza non sulla linea di confine nord/sud, secondo la nota e ancora oggi prevalente tesi di Federico Chabod, ma sulla bisettrice politico-culturale che taglia l’antifascismo in due poli distinti e contrapposti: il polo della continuità e quello della trasformazione. Lentamente, nel corso del tempo, secondo gli interessi particolari, i partiti antifascisti pendolarono da un polo all’altro prima di scegliere definitivamente dove posizionarsi, separandosi e sgretolando così l’unità antifascista. Può certamente apparire irreale, col senno di poi, l’enfasi sulla Costituente. Questo “irrealismo”, però, è una risorsa politica che Parri adopera contro il realismo politico dei suoi avversari visibili e invisibili. È il Parri mazziniano, in realtà, che viene fuori a sfidare i moderni seguaci del Machiavelli. Per una singolare coincidenza della storia, alcuni mesi prima, nel marzo 1945, Guido Dorso, che di Parri fu amico, aveva pubblicato sulla rivista L’Acropoli un saggio dedicato al «Mazzini politico dell’irrealtà». Il pensatore repubblicano è studiato come chi sfida la realtà politica e le forze, le istituzioni, i ceti, i loro equilibri, compromessi, accomodamenti, piegamenti, in essa operanti. Attraverso Mazzini, Dorso avverte che il 1945 richiede la concentrazione assoluta in una sola idea che altra non può essere che la revisione critica di tutto il processo di formazione e di dissoluzione dello Stato storico italiano: dal “capolavoro diplomatico- istituzionale” di Cavour alla disfatta della “diarchia” sabaudo-fascista. Il 1945 parve a Dorso il momento di volgersi a Mazzini. Si potrebbe dire che fu precisamente quello che fece Ferruccio Parri nel suo governo. Se l’Italia aveva bisogno di una politica dell’irrealtà, egli gliela offrì: senza eccessive illusioni ma anche senza colpevoli rassegnazioni, com’era nel suo carattere e nel suo stile, duellando contro la realtà politica del suo tempo e i suoi equilibrismi, compromessi, istituzioni, partiti. Lo scontro decisivo avvenne il 26 settembre 1945 nell’aula della Consulta Nazionale. Aveva la parola Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, mazziniano, Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia appena liberata dal nazifascismo. A un certo punto della sua orazione, rivolse all’assemblea le seguenti parole: «quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione d’incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica [...] tenete presente che da noi la democrazia è appena agli inizi [...] Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo [proteste di parte dell’assemblea, commenti, rumori, Parri è fatto bersaglio d’interruzioni, i consultori si schierano apostrofandosi a vicenda, faticosamente Parri riprende la parola] mi rincresce che la mia definizione sia stata mala accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali». Contro Parri, intervenne Benedetto Croce nella sua veste di leader del Partito Liberale Italiano. Difese la realtà dello Stato liberale affermando che esso aveva consentito l’evoluzione materiale e morale degli italiani, i quali giunsero al suffragio universale, poterono fondare associazioni e camere del lavoro, ottennero il diritto di sciopero, ebbero rappresentanti socialisti in Parlamento; infine, chiarì: «democrazia senza dubbio liberale perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la via alle dittature e ai dispotismi». Il Presidente Parri così replicò nella seduta del 2 ottobre: «alla qualificazione di democrazia, alla qualifica di democratico, io annetto connotati politici determinati, che non riconosco in atto neppure oggi. Oggi abbiamo una volontà democratica non un regime, non un costume politico democratico». Ricomparivano in quel dibattito le fasi della lotta tra liberali e democratici che aveva sconvolto l’Italia da Cavour a Giolitti, compreso la lunga e triste storia di repressioni sociali che il regime liberale aveva commesso e che Croce adesso evitava di ricordare nel suo discorso. Poche settimane dopo i ministri liberali abbandonarono il governo, seguiti dai ministri democristiani, e Parri fu costretto a dimettersi. Sfidando la realtà aveva tentato di spezzare quella linea della transizione che si sovrapponeva sempre più sull’altra della trasformazione, richiamandosi a quella rivoluzione democratica che era stata del Risorgimento e che ritornava con la Resistenza. Sarà sconfitto, come Mazzini prima di lui; e il Partito d’Azione nato dalla Resistenza si dissolverà, com’era già capitato al Partito d’Azione nato dal Risorgimento. Insediatosi il 21 giugno 1945, il governo Parri rimarrà in carica fino al 24 novembre successivo, quando il suo Presidente darà le dimissioni. Il Governo nato dalla Resistenza cesserà le sue funzioni il 10 dicembre 1945, mentre il mondo uscito definitivamente dalla guerra intravedeva comparire all’orizzonte una minacciosa cortina di ferro; del resto, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, il 1945 non aveva generato alcuna trasformazione epocale ed era anzi prevalsa una sostanziale continuità con il passato, che addirittura in America giunse a recuperare con Truman quelle politiche economiche liberaliste che il New Deal aveva creduto di archiviare. Quello stesso Truman cui Parri stava antipatico. Prova ne sia che l’italo-americano Amedeo Giannini, Presidente della Banca d’America e d’Italia, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Napoli il 15 novembre 1945, dieci giorni prima le dimissioni di Parri, aveva dichiarato che «l’alta banca e l’alta industria americana non avrebbero mosso un dito in nostro favore finché non avessero visto la casa in ordine». Che cosa resta oggi, di indispensabile per il presente, di questa storia? Forse rimane una chiave di lettura per interpretare l’angoscioso destino di una Costituzione nata da una volontà trasformatrice ma rimasta impaludata nelle sabbie mobili di un’interminabile e interminata transizione.
   04 Dicembre 2020

LO SPIRITO DEL 1945 IN ITALIA: IL GOVERNO PARRI SETTANTACINQUE ANNI DOPO di Michelangelo Ingrassia


Fra transizione e trasformazione L’anno della Liberazione è stato forzatamente incluso e stemperato dalla storiografia nella lunga period ...
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Maggioranza e opposizione hanno votato a favore dello scostamento di bilancio. Diversi commentatori sostengono che si tratta di una tregua armata, altri di un preludio alla concordia nazionale e altri ancora delle solite manovre di Berlusconi per tutelare le proprie aziende. Ci possono essere altre interpretazioni?  Direi proprio di sì. Personalmente penso si sia trattato di una scelta ragionevole. Finalmente maggioranza e opposizione si sono trovate d’accordo su una decisone importante per il paese. Poi c’è una novità: hanno discusso su come utilizzare le risorse del prossimo ristoro allargando la platea dei beneficiari a autonomi, professionisti e partite Iva. Quindi non darei troppa enfasi a quanto è avvenuto perché nessun partito di opposizione fa davvero le barricate sullo scostamento di bilancio in questa situazione. Né starei a fantasticare sul rimpasto di governo. Rimpasto che per alcuni costituirebbe lo sbocco politico naturale dell’intesa raggiunta in Parlamento. È vero, di rimpasto si parla tanto sulla stampa. Purtroppo in termini di spazi da acquisire per quello o quel partito e non si discute né della competenza né dell’assenza di progettualità da parte del governo. Tanto è così che l’intesa bipartisan sullo scostamento di bilancio è avvenuta su un provvedimento dettato dall’emergenza.  Si sarebbe potuto enfatizzare l’unanimità del voto parlamentare se ci fosse una maggiore discussione, se si parlasse di un progetto dell’Italia post-Covid, se i corpi intermedi fossero coinvolti nel dibattito. Invece, da un lato abbiamo questa concordia basata su un singolo evento e, dall’altro, un paese frammentato con una terribile confusione tra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni. E poi, come le ho detto la settimana scorsa, sono molto preoccupato del modo pasticciato con cui il governo va avanti. E cioè senza veri dibattiti parlamentari. Contrariamente agli annunci roboanti i provvedimenti presi non hanno applicazione immediata perché devono essere approvati i regolamenti e i decreti di carattere attuativo. Pensi che ad oggi per la legge di stabilità sono previsti 85 decreti attuativi. I quali a fine percorso molto probabilmente diventeranno 120-130. Lei si immagini quanto si appesantisce l’applicazione della legge. Quindi abbiamo un bombardamento di provvedimenti a cui non corrisponde l’efficacia attuativa.  In questi giorni sono usciti in successione tre rapporti annuali: dell’Istat, del Censis e dello Svimez. Tutti e tre registrano le pesanti conseguenze della pandemia in termini di incremento della povertà, della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali. Visto che un vaccino sembra alle porte, come sarà l’Italia dopo la pandemia?  Guardi, più si rinvia la definizione delle priorità delle cose da fare una volta che avremo sconfitto il virus, più non si fa chiarezza sulle riforme necessarie per rilanciare il paese, più rischiamo di perdere risorse e di utilizzare in sussidi e assistenzialismo quelle che abbiamo di nostro e quelle che provengono dall’Europa. Se così sarà - e mi auguro vivamente di no – l’Italia resterà ferma o addirittura tornerà indietro. E in che termini tornerà indietro? Lo stiamo già vedendo con l’aumento delle disuguaglianze sociali e territoriali. Il vero problema politico oggi non è il voto unanime sullo scostamento di bilancio. Ma il ritardo che il nostro governo sta accumulando nel prendere le decisioni strategiche necessarie per rimettere in piedi l’economia del nostro paese.  Prenda il problema della salute. Io vedo una grande disattenzione da parte della maggioranza. Eppure non è una questione residuale come drammaticamente questi mesi hanno dimostrato. In tutta la sua evidenza è venuta fuori la disuguaglianza degli anziani. I quali costituiscono la classe generazionale più colpita dalla pandemia. Non si tratta di una disuguaglianza economica. Ma dato che la vita si allunga, per il futuro come proteggeremo meglio gli anziani? Prenda il problema degli studenti. A giugno scorso li si è promossi in massa. Con tutta probabilità faremo così anche l’anno prossimo. Come recupereranno la preparazione che hanno perduto? Non è chiaro. E qual è il piano per la didattica a distanza di domani? Anche su questo sento solo parole e poco altro.  Dunque a suo parere se non si cambia il modo di affrontare l’emergenza sociale ed economica il futuro dell’Italia è denso di nubi.    Direi di sì e per qualcuno le nubi saranno più fosche. Per essere chiari: con la pandemia non siamo diventati tutti più poveri. Gli effetti economici scaturiti dalla crisi sanitaria non sono stati uguali per tutti. E tralascio di soffermarmi su chi ha fatto i soldi dalla pandemia, a iniziare dalle web-corporation che non pagano le tasse. Il Covid-19 ha esasperato le sperequazioni maturate in decenni di politiche neoliberiste. Ben prima della pandemia l’Italia stava diventando una jungla. Ambiente in cui vince il più forte e dove i deboli non sono tutelati. Se non si interviene le cose sono inevitabilmente destinate a peggiorare. Eppure in questo momento così drammatico c’è chi sostiene che i pensionati siano un peso. Faccio notare che in termini quantitativi gli anziani costituiscono una fetta consistente della popolazione e che le loro pensioni sono un fiume di denaro in circolazione nel tessuto economico. Aggiunga poi che in tanti casi permettono ai giovani di andare avanti negli studi e di pagare il mutuo o l’affitto di casa.       Sembra che non esistano più partiti attenti alla questione sociale. Questione che è sempre di più all’ordine del giorno e che finirà per esplodere. Nonostante ciò c’è chi contrappone i lavoratori del pubblico impiego a quelli del privato perché i primi sono più garantiti dei secondi. Senza il pubblico impiego il paese non avrebbe retto in questi mesi. Basti pensare al personale sanitario e a quello scolastico. E poi se gli statali proclamano lo sciopero sui giornali c’è la levata di scudi. È un modo di convogliare il malessere nella direzione sbagliata. Ma non ci si rende conto della funzione che hanno avuto i sindacati per la tenuta sociale durante la pandemia? Il governo dovrebbe invece dare una vera e partecipata prospettiva di trasformazione del paese finalizzata a colmare le distanze sociali per realizzare con la solidarietà una vera coesione.
   30 Novembre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto. “Sembra che non esistano più partiti attenti alla questione sociale” Il voto parlamentare sullo scostamento di bilancio. La situazione del paese attraverso i rapporti annuali di Istat, Censis e Svimez di Patrizio Paolinelli


Maggioranza e opposizione hanno votato a favore dello scostamento di bilancio. Diversi commentatori sostengono che si tratta di una tregua a ...
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Qualche giorno fa si sono conclusi gli Stati generali dei 5 Stelle. Alcuni commentatori hanno sostenuto che la creatura di Beppe Grillo si è ormai trasformata in un partito, altri che si è trattato di un processo di crescita e che l’essenza movimentista dei pentastellati non cambia. Secondo lei chi ha ragione?  Nessuno, perché i 5 Stelle sono un soggetto difficile da definire. Diciamo che sono un grande stato d’animo composto da una miscela di rancore, frustrazione e ricerca del facile consenso. A proposito di quest’ultimo aspetto nel suo intervento agli Stati generali Roberto Fico ha detto che le strategie acchiappalike sono diffuse nel Movimento. Credo sia un’affermazione rivelatrice che conferma quanto quella che lei ha definito la creatura di Grillo sia un soggetto sfuggente. Sfuggente perché non si sa bene da dove viene e dov’è diretta. Insomma è un cocktail di soggettività che oggi ha un sapore e domani un altro. Il populismo è un’etichetta che molti gli attribuiscono. Ma quello che mi pare distingua i 5 Stelle dalla Lega come da altre espressioni del populismo è che è senza ideali, senza obiettivi, tantomeno quello della solidarietà sociale. Nascono come un aggregato di arrabbiati, come grandi accusatori della politica tout court e adesso che governano non sono più né l’uno né l’altro. E per questo motivo perdono consensi.  Piuttosto c’è da chiedersi come mai hanno avuto così tanto successo. A mio parere perché i partiti tradizionali si sono trasformati in universi chiusi, diretti da ceti autoreferenziali lontani dalla realtà quotidiana dei cittadini. In poche parole, è venuta meno la relazione tra partiti e società. Sono scomparse le sezioni, le scuole e i giornali di partito. Gli stessi politici non si formano più partendo dai gradini più bassi per fare carriera passo dopo passo. Ecco, i 5 Stelle hanno colmato l’immenso vuoto lasciato dalla crisi della politica. Sono figli della transizione ancora incompiuta tra la Prima e la Seconda Repubblica. Facendo leva sullo scontento di tanti cittadini hanno gestito la loro comunicazione politica con rabbia, rancore e approssimazione. Ha funzionato perché è un movimento che tiene conto degli umori della società e per questo motivo dice cose sia di destra che di sinistra. Ma non voglio essere distruttivo. Hanno saputo raccogliere la protesta. Non sono capaci di trasformarle in vere riforme. Non hanno capacità di governo. Rappresentano, però, una realtà che non va ignorata.  È prossima una manovra del governo che prevede uno scostamento di bilancio di circa 8 miliardi di euro. Il commissario europeo all’economia, Paolo Gentiloni, ha detto chiaramente che nel medio termine l’Italia dovrà ridurre il debito pubblico. Queste parole significano il ritorno dell’intransigenza europea sui nostri conti?    Guardi, ci troviamo in una situazione complessa perché il governo ha dovuto misurarsi con la seconda ondata della pandemia. Ondata che non era attesa e l’esecutivo ha iniziato a sparare i fuochi d’artificio sotto forma di decreti ristori. Siamo già al quarto. Tenga poi presente la legge di bilancio, da approvare entro il 31 dicembre, si basa anche su un anticipo da 20 miliardi del Recovery Fund. Come se non bastasse vorrei sottolineare un elemento che a me impensierisce parecchio. E cioè che questa legge di stabilità ha una sola lettura e non le consuete tre: una prima di presentazione in un ramo del Parlamento, successivamente il suo completamento nel secondo ramo, infine l’approvazione tra Natale e Capodanno. Adesso ci troviamo ad una estensione di una specie di monocameralismo alternato già in atto per i decreti legge. Quest’anno la legge di bilancio si discuterà in una sola Camera e l’altra si limiterà a votarla perché non ci sarà tempo per fare altro.  L’unione Europea è in forte imbarazzo. Siamo in ritardo. In ritardo perché non ci si è preparati alla seconda ondata del virus, in ritardo perché la legge di bilancio viene presentata alla fine di novembre, in ritardo perché non abbiamo ancora presentato a Bruxelles dei progetti operativi per utilizzare le risorse del Recovery Fund. Gentiloni, il commissario europeo per l’economia, sollecita il nostro paese a recuperare il tempo perduto. Non che sia un atteggiamento minaccioso o punitivo, vedo piuttosto una Europa preoccupata e delusa nei nostri confronti. Siamo un paese con un debito pubblico pauroso che aumenta vertiginosamente, siamo il paese che ha ricevuto la maggior quota di risorse dal Recovery Fund e ci troviamo in ritardo su tutto. Ce ne è abbastanza per dire al governo di darsi una mossa.   L’ultimo incontro tra governo e sindacati è stato molto teso ed è finito con la proclamazione di uno sciopero nazionale del pubblico impiego per il prossimo 9 dicembre. I buoni rapporti tra il premier Conte e le organizzazioni dei lavoratori volgono al termine?  Direi di no, anche se debbo registrare da parte del governo un po’ di insofferenza. In questo senso mi pare emblematica la puntualizzazione di Conte quando Bombardieri gli ha fatto notare che la legge di bilancio era già stata approvata dal Consiglio dei ministri senza un confronto con i sindacati. E dunque il loro incontro si riduceva a una pura informativa e di fatto non prevedeva discussione, cosa che le organizzazioni dei lavoratori avrebbero di gran lunga preferito. Il premier ha ribattuto sostenendo di non aver mai parlato di concertazione. Ora, la concertazione non è una cosa blasfema. Al contrario è utile all’esecutivo perché se ascolta le parti sociali evita la guerra per errore. Discutere con i corpi intermedi su come affrontare l’emergenza economica e su come impostare le modifiche strutturali non è affatto una bestemmia. Forse Conte non sa che la concertazione è un collaudato modello di gestione delle politiche del lavoro e delle relazioni sindacali. Subito dopo l’esplosione di tangentopoli Ciampi, allora Presidente del Consiglio, realizzò la concertazione triangolare con le associazioni degli imprenditori e quelle dei lavoratori. Il sindacato stesso ha condotto con successo battaglie sulla politica dei redditi, su quella fiscale e su quella industriale.  Certo, nel confronto possono esserci anche gli scioperi. E lo sciopero il sindacato non lo proclama per fare un dispetto al governo ma per sostenere proposte organiche. È un diritto sancito dalla Costituzione. In questo senso lo sciopero del 9 dicembre va interpretato come un invito a ragionare. Insomma, il pubblico impiego è chiamato a una rivoluzione perché i processi produttivi saranno sempre più digitalizzati, perché ci sono vuoti di organico, perché i concorsi sono stati sospesi, perché ci sono ancora dei contratti da firmare e perché dinanzi all’emergenza sanitaria i lavoratori della scuola e della sanità hanno dovuto inventarsi da soli le soluzioni. Si vogliono affrontare questi problemi senza ascoltare i sindacati? È una strada sbagliata e penso che gli statali abbiano pienamente ragione a chiedere un confronto vero col governo e a scioperare. Non lo dico per partito preso. Ritengo un gravissimo errore rinviare alle calende greche i contratti. La Pubblica Amministrazione è oggi il perno della essenziale vasta opera di assistenza alle imprese ed alle famiglie. Invece di ignorare il ruolo delle organizzazioni sindacali allora, sarebbe importante andare oltre la retorica, oltre il disprezzo per il sociale, oltre la miope presunzione di amministrare il Paese con un rapporto diretto con i cittadini che in realtà sa di furbo paternalismo e tornare a dare fiducia al confronto, al rispetto degli interlocutori sociali, alle proposte che giungono dai corpi intermedi che sono, essi si, nella realtà viva del Paese.
   23 Novembre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto “Gli statali hanno ragione a scioperare” Gli stati Generali dei 5 Stelle. L’intervento di Gentiloni sul nostro debito pubblico di Patrizio Paolinelli


Qualche giorno fa si sono conclusi gli Stati generali dei 5 Stelle. Alcuni commentatori hanno sostenuto che la creatura di Beppe Grillo si è ...
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GLI INFORTUNI SUL LAVORO DA COVID – 19 IN ITALIA: DATI E PROBLEMI   L’infezione da nuovo coronavirus rimbalza anche negli ambienti di lavoro, dove il virus sembra circolare senza fretta ma senza tregua. Se il ricorso alla figura retorica della guerra, come metafora dell’emergenza che stiamo affrontando, ha soventemente contraddistinto la narrazione quotidiana della pandemia, allora possiamo accostare i lavoratori e le lavoratrici oggi contaminati in occasione di lavoro, ai lavoratori e alle lavoratrici che restarono feriti, mutilati o uccisi nei luoghi di lavoro a causa dei conflitti. Fuor di metafora, una comparazione storica è possibile farla con l’ultima terribile pandemia dell’età contemporanea, sopraggiunta nello stesso momento in cui stava per estinguersi l’incendio della Grande guerra: la cosiddetta “spagnola”, che tracimò senza incontrare ostacoli nelle fabbriche, nelle campagne, nei servizi di pubblica utilità; abbattendo braccianti, operai, impiegati, dipendenti pubblici e privati. Oggi, al contrario di quanto accadde allora, prevale una maggiore attenzione per la tutela della salute dei lavoratori e delle lavoratrici. La cultura e la legislazione della salubrità e della sicurezza nei luoghi di lavoro ne hanno percorsa di strada, come documenta il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo scorso dal Governo e dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori; tanto più, dunque, serve tenere sotto controllo l’andamento degli infortuni da Covid-19 in occasione di lavoro, al fine di verificare l’opera di contenimento della propagazione dell’infezione. Lo strumento, peraltro, non manca ed è messo a disposizione da un’istituzione autorevole come l’Inail, che monitora il fenomeno attraverso la struttura della Consulenza Statistico Attuariale. L’ultima rilevazione statistica resa pubblica dall’Istituto, rivela che al 30 settembre 2020 le denunce d’infortunio da Covid-19 in occasione di lavoro pervenute all’Inail sono state 54.128, di cui 319 con esito mortale. Secondo la stima fornita dall’Inail, le denunce d’infortunio da Covid-19 equivalgono al 17,2% dei contagiati nazionali totali comunicati dall’Istituto Superiore di Sanità alla stessa data; le denunce con esito mortale corrispondono, invece, allo 0,9% dei decessi per Covid-19 comunicati dall’Istituto Superiore di Sanità alla data del 30 settembre 2020. Si tratta di numeri e casi provvisori, avverte l’Inail, in fase di consolidamento per via dell’iter amministrativo e sanitario che segue ogni singola denuncia. Dietro questi numeri, tuttavia, compaiono le persone, i lavoratori e le lavoratrici, con le loro storie, i loro affetti, le loro aspirazioni, messi in pericolo o annientati dalla diffusione dell’infezione: i contagi hanno interessato prevalentemente le donne per il 70,7%; le denunce con esito mortale sono riferite maggiormente agli uomini per l’84,0%. Rinviamo ad altra occasione la triste graduatoria degli infortuni per territorio e per settore di attività economica, che vede rispettivamente primeggiare le Regioni del nord-ovest e il settore della sanità e assistenza sociale sia per le denunce d’infortunio non mortali e sia per quelle con esito mortale. Ciò che qui preme mettere in risalto è invece quello che sembra manifestarsi come un fenomeno carsico, un dato da non sottovalutare e che pone problemi. Osservato dalla prima rilevazione resa disponibile dall’Inail il 21 aprile all’attuale del 30 settembre, infatti, l’andamento delle denunce d’infortunio da Covid-19 in occasione di lavoro evidenzia una grave e decisa tendenza all’aumento della numerosità di casi: dalle 28.381 denunce d’infortunio di aprile si è passati alle 54.128 di settembre; e dalle 98 denunce con esito mortale di aprile si è giunti alle 319 di settembre. Tale incremento di casi pervenuti all’Inail non si è interrotto neppure quando si è assistito a un’oscillazione della curva dei contagi diagnosticati in tutta la Penisola. La curva generale dei contagi, infatti, come ricorda il “Report Covid-19. Fermare l’accelerazione della pandemia”, pubblicato dall’Associazione Lavoro&Welfare il primo novembre, ebbe un picco a marzo e un minimo a luglio, per poi risalire dal mese di agosto. Le denunce d’infortunio comprese quelle mortali, al contrario, non hanno registrato questo intervallo e hanno continuato ad aumentare. Tanto è vero che, come riportano i documenti statistici dell’Inail, se si divide il tempo del virus in due diversi periodi: fase di lockdown (fino a maggio compreso) e fase post lockdown (da giugno a settembre), questa tendenza all’aumento delle denunce d’infortunio da Covid-19 in occasione di lavoro, campeggia minacciosa. La tendenza all’aumento, peraltro, è ulteriormente rimarcata dai seguenti due fattori: il numero dei lavoratori non ammessi dalla normativa vigente alla tutela Inail; e il numero di lavoratori cui è stato garantito l’accesso alla cassa integrazione e che dunque sono stati temporaneamente esclusi dalla forza lavoro. Nel periodo compreso tra i mesi di gennaio e settembre, difatti, sono state autorizzate in Italia 3.192.064.467 ore di Cig totali che, secondo le analisi contenute nel “Report Cig. Cassa Integrazione Guadagni. Gennaio - settembre 2020”, elaborato dall’Associazione Lavoro&Welfare, equivalgono a un’assenza a tempo pieno dall’attività produttiva di circa due milioni di lavoratori dall’inizio dell’anno. A essi vanno aggiunti circa cinque milioni di lavoratori che, in base all’ultima rilevazione disponibile realizzata dall’Inail nel 2017, restano esclusi dalla protezione infortunistica dell’Istituto; tra essi, solo per fare un esempio, i medici di famiglia e i vigili del fuoco. Ne consegue che approssimativamente sette milioni di lavoratori e lavoratrici sfuggono al monitoraggio compiuto dall’Inail. Se a tutto questo si aggiunge il fenomeno del lavoro nero, imperante soprattutto al Sud e nelle campagne, dobbiamo convenire che probabilmente gli infortuni da Covid-19 in occasione di lavoro siano più di quelli istituzionalmente conteggiati. I dati statistici Inail e la dimensione che progressivamente sta assumendo il fenomeno rendono dunque evidente la necessità di alzare ancor di più la guardia nei luoghi di lavoro per contrastare e rallentare quanto più possibile la propagazione della pandemia.  Che fare dunque? Nell’immediato è bene che le Organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori attuino una più efficace azione di vigilanza sul rispetto delle norme anticontagio previste dai protocolli di sicurezza sui luoghi di lavoro, istituendo magari commissioni paritetiche interne che periodicamente forniscano rapporti ufficiali alle autorità sanitarie sull’applicazione delle misure e su eventuali difficoltà sorte in fase di attuazione. Il Governo, inoltre, dovrebbe individuare risorse e mezzi per rafforzare l’opera di contrasto al lavoro nero e al caporalato che, oltre ad essere fonte d’illegalità, oggi costituiscono anche causa di potenziali e incontrollabili focolai pandemici. Pure in questo caso i meccanismi legislativi ci sono, bisogna farli funzionare con più rapidità. Occorrerebbe poi puntare lo sguardo su quegli ambienti e ambiti di lavoro non sottoposti alla tutela Inail, per controllare lo stato delle misure anticoronavirus e le condizioni di assistenza ai lavoratori e alle lavoratrici a infortunio avvenuto. Per il lungo periodo, una delle lezioni più severe che sta impartendo il coronavirus è quella della necessità di consolidare e irrobustire la tutela della salubrità e della sicurezza nei luoghi di lavoro, a cominciare dall’estensione della tutela Inail a quei lavoratori e lavoratrici e a quei settori economici e professionali ancora oggi esclusi e dalla riorganizzazione di forme, tempi e modi del lavoro.  Michelangelo Ingrassia
   19 Novembre 2020

GLI INFORTUNI SUL LAVORO DA COVID – 19 IN ITALIA: DATI E PROBLEMI di Michelangelo Ingrassia


L’infezione da nuovo coronavirus rimbalza anche negli ambienti di lavoro, dove il virus sembra circolare senza fretta ma senza tregua. Se il ...
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“Oggi più di ieri è in crisi il rapporto tra il paese e i decisori politici” I conflitti sul lavoro in era Covid. L’assunzione dei rider come dipendenti. La riforma dello Statuto dei Lavoratori  di Patrizio Paolinelli  <em>In piena pandemia permangono i conflitti sul lavoro. Per esempio, di recente c’è stato lo sciopero nazionale degli addetti alle pulizie, da sette anni in attesa del rinnovo contrattuale, e gli operai della Whirlpool di Napoli sono ancora in lotta nonostante l’azienda abbia deciso la chiusura degli stabilimenti. Non le sembra che sulle questioni del lavoro l’emergenza sanitaria ed economica in corso insegni davvero poco?</em>  Non è che mi sembra: è proprio così. Fino a qualche settimana fa il dibattito politico era concentrato sulle grandi strategie da adottare per la digitalizzazione, il Mezzogiorno, le politiche fiscali, gli investimenti e sulle regole a cui attenersi rispetto a una pandemia in fase calante. Invece è arrivata la seconda ondata di coronavirus e i cittadini stanno reagendo. Durante la prima ondata è prevalsa la fiducia nei confronti del governo nonostante le difficoltà in cui tutti ci siamo trovati a causa della quarantena e gli altri limiti alle libertà personali che ci sono stati imposti. Oggi la fiducia è caduta drasticamente e i cittadini sono arrabbiati e impauriti. Impauriti per un futuro che si profila denso di nubi. Arrabbiati perché gli italiani non riescono a spiegarsi come mai durante l’estate non ci si è attrezzati per l’ampiamente previsto ritorno del coronavirus. Un altro motivo della rabbia è il fatto che adesso le conseguenze sull’economia sono assai più pesanti. Molti si erano attrezzati per convivere con un’epidemia sotto controllo mettendo a norma uffici e negozi e all’improvviso devono di nuovo chiudere.   Mi pare di poter dire che oggi più di ieri è in crisi il rapporto tra il paese e i decisori politici. Non si vede un fronte comune delle istituzioni, non c’è un messaggio chiaro, il vaccino in arrivo a gennaio è qualcosa di vago e si assiste allo spettacolo degli amministratori pubblici che litigano sull’attendibilità dei dati relativi al contagio. Insomma, non c’è una sola certezza a cui i cittadini possono aggrapparsi. Pertanto non si fidano più di nessuno. Persino l’Europa sembra scomparsa dai radar. Nel frattempo come ha evidenziato lei nella sua domanda il conflitto tra impresa e lavoro non conosce tregua. Anche in questo caso la politica non ha gestito i problemi dell’economia in maniera soddisfacente. Nessuno chiede miracoli. Ma di affrontare le tante situazioni di crisi questo sì. Penso che in una fase drammatica come quella che stiamo attraversando il governo debba presentarsi come soggetto mediatore tra le parte sociali e cercare il più possibile delle soluzioni. Invece ci sono crisi aziendali che si trascinano da troppo tempo e ancora oggi lì giacciono. Il risultato è un paese drammaticamente diviso, 12 milioni di sono in attesa del rinnovo contrattuale e si va al muro contro muro.  <em>Just Eat sconfessa il contratto di comodo firmato tra Assodelivery e Ugl e annuncia che dal 2021 assumerà i rider come dipendenti. Se così sarà questo episodio resterà un caso isolato o può aprire una nuova strada nel rapporto tra lavoro e imprese dell’economia digitale?</em>  Di certo una rondine non fa primavera. Se si vuole affrontare il problema occorre che il governo prenda l’iniziativa per superare gli iniqui rapporti di lavoro che investono, se non tutto, gran parte di un intero comparto. Debbo dire che da parte dei sindacati è arrivata un’indicazione interessante. E cioè la presa d’atto che lo Statuto dei Lavoratori ha qualche ruga, che il mondo della produzione è cambiato e dunque diverse norme contenute in quella legge vanno cambiate. Ecco perché è necessario che il governo intervenga. Quello che tuttavia mi chiedo è che fine ha fatto la documentazione raccolta durante gli Stati generali dell’Economia. È stata messa da parte per accendere il fuoco quest’inverno?    Battute a parte, ricordo che quando Di Maio era ministro del lavoro aveva preso delle iniziative su questo fronte, si è poi ritornati sul problema dopo le ultime regionali, ma ad oggi non si è visto nulla di concreto. Tuttavia sul lavoro organizzato tramite piattaforme bisogna intervenire. Però è necessaria una maggiore operatività da parte del governo. Io, come tutti gli italiani, ascolto in Tv i suoi maggiori esponenti ed è un fiorire di buone intenzioni, di rassicurazioni, di distribuzioni. Sembra che sia soprattutto così che il governo manifesta la propria esistenza perché di fatti poi se ne vedono pochi.    <em>Mi ricollego al suo richiamo dello Statuto dei Lavoratori perché nella prima giornata di Futura 2020 in un confronto con Landini il premier Conte ha dichiarato di essere d’accordo nel riformarlo per passare allo statuto dell’impresa. Quali sono le opportunità e le incognite di un dibattito che sembra avviarsi davvero?</em>  Mi sembra che quella di Conte sia una battuta da Twitter. Cosa significa statuto dell’impresa? Poiché la proposta di riformare lo Statuto dei Lavoratori è partita proprio da Landini non sarebbe stato meglio rispondergli che andava stabilita un’agenda tra governo e sindacati? Rilanciare invece con una controproposta in cui si parla di un vago, vaghissimo statuto d’impresa significa fare un’amabile conversazione ma nulla più. Ancora una volta non vedo concretezza.  Guardi, Conte è una persona gentile, disponile e ha accettato l’invito di partecipare all’iniziativa della Cgil. E questo è un atteggiamento positivo. Dunque, bene la cortesia, ci mancherebbe altro. Però qui c’è bisogno di aprire tavoli negoziali per definire le cose che non vanno nello Statuto dei Lavoratori e cambiarle. Se invece si introduce lo statuto dell’azienda intanto occorre consultare anche le parti datoriali e non mi pare che se ne sia parlato. Intendo dire che una materia come questa va maneggiata con grande attenzione perché include il tema della formazione permanente, della digitalizzazione, dello smart working, della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’innovazione tecnologica e così via. Insomma si tratta di un intervento molto complesso per il quale le battute servono a poco.
   16 Novembre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto


“Oggi più di ieri è in crisi il rapporto tra il paese e i decisori politici” I conflitti sul lavoro in era Covid. L’assunzione dei rider ...
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“L’elezione di Biden manda in crisi la politica basata sulla demonizzazione dell’avversario”   Le polemiche sulla divisone in zone dell’Italia. Lo sciopero dei metalmeccanici  di Patrizio Paolinelli  Le elezioni negli USA hanno dato l’immagine di un paese diviso e in crisi istituzionale. Tenuto conto che il trumpismo non finirà con l’uscita di Trump dalla Casa Bianca, questa divisione e questa crisi continueranno anche dopo l’esito delle urne?  Mi auguro di no, ma oggi è difficile fare delle previsioni. Però sul piano internazionale noto delle cose interessanti. La prima, ovviamente, è la sconfitta di Trump, cosa non scontata come si è visto. Trump è stato uno dei padri del populismo che ha rotto la solidarietà interna e internazionale facendo emergere l’America isolazionista. Il cammino di Biden pertanto sarà pieno di insidie e di trappole. Vedremo come si destreggerà. La seconda novità internazionale è la recente svolta di Bruxelles verso un’Europa un po’ più solidale e verso la presa di coscienza che sia la globalizzazione sia il mercato devono fare i conti con le persone in quanto esseri umani.    Credo che questi due fattori concorreranno a mettere ulteriormente in crisi un modo di fare politica basato sulla contrapposizione frontale e la demonizzazione dell’avversario. Dopo la svolta europea le elezioni statunitensi indicano che l’ubriacatura per la globalizzazione e i suoi valori - in primis l’individualismo – segnano il passo e si può forse ritrovare la strada perduta. Ossia la strada della solidarietà e della coesione sociale, che peraltro la sinistra ha sempre percorso e che troviamo esplicitata nelle poco ascoltate esortazioni di Papa Francesco alla fratellanza. Ecco, mi pare che da diverse parti ci siano segnali interessanti di un ritorno alla politica intesa come ascolto e dialogo.    Fronte pandemia. La suddivisione dell’Italia in tre zone di rischio ha acceso l’ennesima protesta di alcune Regioni. Al di là della contingenza quali saranno le conseguenze di questo conflitto dopo la fine dell’emergenza sanitaria?    Le conseguenze le vediamo già oggi, perciò dobbiamo voltare pagina. La prima cosa da fare è semplificare. Se lei sfoglia il Decreto ristori bis vedrà che è composto da una ventina di pagine di testo e quasi 300 di allegati. Un vero e proprio labirinto. La seconda cosa da fare è gestire la nuova ondata del coronavirus sulla base di pochi e chiari criteri in modo che tutti sappiano come e perché una determinata regione si trova nella zona rossa, arancione o gialla. È lo Stato che deve mettere ordine al proprio interno. Prenda il caso della Puglia. Il Presidente della Regione, Michele Emiliano, ha deciso di chiudere le scuole e ci sono stati dei ricorsi al Tar. La sezione di Bari ha accolto la decisione di Emiliano mentre quella di Lecce l’ha respinta.   Questa situazione di protesta e confusione è dovuta anche all’eccessivo protagonismo del Presidente del Consiglio. Ma non è da soli che si può governare la pandemia. Ci deve essere un confronto nella Conferenza Stato-Regioni e con i corpi intermedi. Procedere invece per decreti emessi a raffica trovo che sia un metodo sbagliato. In Germania la Merkel ha un rapporto dialettico con i Lander, fatto anche di confronti accesi, ma non si trova coinvolta in una polemica permanente come accade in Italia. Ecco perché si verificano episodi quali quello del Tar della Puglia e si alimentano i sospetti dell’opposizione di favorire certe regioni penalizzandone altre. Sicuramente una delle cose che andavano fatte dall’inizio della pandemia era costituire un tavolo permanente tra ministero della Salute e rappresentanti delle Regioni. In questa maniera ci sarebbe stata una corresponsabilità nella gestione dell’emergenza sanitaria e si sarebbe evitato il conflitto permanente a cui assistiamo all’uscita di ogni Dpcm.    Il 5 novembre scorso i metalmeccanici hanno scioperato per il rinnovo del contratto nazionale raggiungendo una partecipazione media del 70%. Qualche osservatore ha criticato l’iniziativa dei sindacati dato il momento in cui ci troviamo. Lei cosa ne pensa?  Intanto direi che gli osservatori a cui lei si riferisce sono davvero pochi per il semplice fatto che la stampa ha praticamente ignorato lo sciopero. Quello che vorrei osservare è che si stanno dando tutti questi ristori alle categorie produttive mentre nell’industria ci sono contratti fermi da anni e negli ultimi dieci il potere d’acquisto dei salari è sensibilmente diminuito a fronte invece di profitti stabili o in crescita. È chiaro che una dinamica simile porta all’impoverimento del mercato interno e alla caduta della domanda. Per questo e per altri motivi non credo siano più tempi in cui l’impresa può continuare a pensare di battere la concorrenza risparmiando sul lavoro.   Consideri poi altri tre elementi che riguardano lo sciopero del 5 novembre. Il primo: gli aumenti salariali richiesti dai sindacati sono da intendere come un risarcimento per la mancata contrattazione aziendale. Il secondo: i profitti realizzati non sono stati reinvestiti in Italia ma in altri paesi e su questa politica industriale occorrerà aprire una discussione. Il terzo elemento: ai finanziamenti pubblici per il sostegno dell’innovazione tecnologica nelle fabbriche deve conseguire una maggiore partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alle scelte aziendali. Non si tratta affatto di richieste massimaliste. Sono nella logica di un’economia in trasformazione. Come è nella logica delle cose che rinnovare i contratti, non solo nell’industria, sia un modo intelligente per rianimare il mercato.
   09 Novembre 2020

Tre Domande a Giorgio Benvenuto


“L’elezione di Biden manda in crisi la politica basata sulla demonizzazione dell’avversario” Le polemiche sulla divisone in zone dell’I ...
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“Le proteste di piazza non vanno criminalizzate”   Le responsabilità della stampa. Le cause che impediscono il dialogo tra maggioranza e opposizione  di Patrizio Paolinelli  L’ultimo Dpcm varato per fronteggiare l’emergenza sanitaria ha suscitato numerose proteste di piazza, alcune delle quali degenerate in guerriglia urbana. Il malcontento sociale è destinato a crescere?  Sì, se non si cambia il metodo con cui viene affrontata la pandemia. Un metodo decisionista e solitario che ha funzionato durante la prima ondata, quando la diffusione del coronavirus ci ha colti di sorpresa. Poi, come già ho avuto modo di dirle, durante l’estate ci si è cullati negli allori perché la curva epidemiologica si era notevolmente abbassata e si è rassicurata l’opinione pubblica dicendo che non ci sarebbe più stato un altro lockdown generalizzato. Ma con l’arrivo della seconda ondata il decisionismo del governo è andato in crisi: in diverse regioni le scuole sono chiuse e c’è il coprifuoco notturno, in altre no. Ognuno sta prendendo le proprie misure di contenimento della pandemia e si guarda con terrore alla prospettiva di un nuovo lockdown nazionale. Per di più il governo con l’ennesimo decreto ha stabilito limiti orari che sono insostenibili per diverse attività produttive.  Il problema è che governo oggi rincorre gli avvenimenti – ossia l’inarrestabile aumento dei contagi - e i cittadini non capiscono su quali basi vengono formulati decreti emessi senza ascoltare né le parti sociali né le associazioni di categoria. Perché alcuni comparti sono esclusi dalle misure d’emergenza e altri no? Ecco il motivo per il quale la gente scende in piazza. E come in tutte le manifestazioni c’è sempre il rischio delle infiltrazioni, ma le proteste non vanno criminalizzate. D’altra parte, tutti vedono che né i trasporti pubblici né i presidi ospedalieri sono stati potenziati e non si comprende perché sono stati rifiutati i soldi del Mes. Il punto è che c’è malessere, incertezza e rabbia soprattutto nelle fasce sociali e produttive già pesantemente colpite dalla crisi economica precedente all’arrivo del coronavirus.   È anche vero però che il governo si muove in base all’evoluzione della pandemia. In diversi paesi europei si sono decise nuove serrate nazionali.  Per quanto riguarda l’Italia questa situazione non è da imputare solo al governo. Se i cittadini sono frastornati è anche perché il sistema dell’informazione alimenta la confusione. Basta assistere alle interviste e ai dibatti che si susseguono senza sosta in Tv e sui giornali. Vengono messe insieme persone non competenti che si improvvisano esperti gestori della pandemia e presentano le loro ricette. A costoro vengono affiancati urlatori che spingono alla rissa in diretta. Insomma, c’è un tale un diluvio di personaggi che intervengono a dire la loro che ad ascoltarli ti viene in mente la Torre di Babele: non si capisce più niente. E poi c’è il tema dei virologi. Con la comparsa del Covid-19 si pendeva dalle loro labbra in quanto veri esperti, voce della scienza. E che cosa è successo? Hanno fatto previsioni sbagliate che poi si sono rimangiate, litigano tra di loro, si insultano a vicenda. Ecco, siccome tutta questa baraonda avviene sui media, credo che la stampa dovrebbe avere maggiore coscienza del proprio ruolo.  Qualche giorno fa il segretario del PD, Nicola Zingaretti, ha chiesto di coinvolgere l’opposizione per contrastare l’avanzata della pandemia e successivamente il premier Conte ha proposto al centrodestra l’apertura di un tavolo permanete. Ma l’invito è stato rispedito al mittente. Quali sono le cause che impediscono un clima più sereno tra maggioranza e opposizione?   La prima causa è dovuta al fatto che l’attuale governo è stato messo in piedi a settembre dell’anno scorso per impedire di andare alle elezioni e non per affrontare i problemi del paese, che purtroppo si sono aggravati con l’epidemia. Dunque l’alleanza tra PD e 5 Stelle è un’alleanza di necessità e non programmatica. La seconda causa è dovuta al fatto che il Parlamento funziona principalmente per approvare decreti legge. Perciò la discussione in aula tra le forze politiche si è impoverita oltremisura. La terza causa è dovuta all’allergia del governo a dialogare con i corpi intermedi. La quarta e ultima causa è la mancanza di una vera volontà politica da ambo gli schieramenti, anche se singoli esponenti dei due fronti vorrebbero una collaborazione tra maggioranza e opposizione.   Nella situazione in cui ci troviamo l’ultima causa mi sembra oggi quella più significativa. In primo luogo, perché assesta un ulteriore duro colpo alla politica in quanto tale visti i drammi che cittadini e lavoratori stanno vivendo da mesi. Quante volte abbiamo sentito invocare dai più diversi esponenti dei partiti la necessità di collaborare e poi non se ne è fatto niente. Questa storia mi ricorda quella dell’unità sindacale. Tutti si dicono favorevoli e poi l’unità sindacale non si è fa. Personalmente non mi rassegno. Credo che in nome dell’interesse nazionale un accordo tra forze di maggioranza e forze di opposizione vada trovato e, aggiungo, chi governa ha maggiori responsabilità nel cercare questo accordo. Così come non mi rassegno alla mancanza di un vero dialogo con le forze rappresentative del mondo produttivo e della società da parte della maggioranza. Dialogo che aiuterebbe a superare anche le divisioni tra i partiti. Invece, come stiamo vedendo in questi mesi, si interviene quando le cose sono già compromesse facilitando in tal modo la polemica politica.
   02 Novembre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto


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“Attivare un dialogo nazionale per affrontare la pandemia”  Perché occorre tassare i giganti del Web  di Patrizio Paolinelli  Il coronavirus è tornato a flagellare l’Italia, l’Europa e buona parte del mondo. Il nostro sistema sanitario e così gli altri sono già in stato di sofferenza e in alcuni casi di crisi. Per quanto riguarda il nostro paese cosa non è stato fatto per arrivare meno impreparati a questa seconda ondata della pandemia?  Si è perso del tempo e un po’ ci si è cullati sugli allori. L’apprezzamento generale che l’Italia ha ricevuto nella gestione della prima ondata è diventato un modo per pavoneggiarsi e non si sono affrontati con l’urgenza dovuta i problemi emersi a marzo. Vorrei ricordare che il nostro successo nel far fronte al coronavirus fu dovuto certamente alle misure imposte dal governo, ma anche e forse soprattutto all’abnegazione del personale sanitario e al corretto comportamento della stragrande maggioranza degli italiani. In primavera e in estate si è pensato che il problema fosse stato bene o male risolto e si è riaperto pressoché tutto. Apertura che è avvenuta più con un’ottica politico-elettorale che col necessario pragmatismo richiesto dalla situazione.   Guardi, qui non si tratta di trovare i colpevoli come purtroppo si usa fare troppo spesso. Ma di attrezzarsi con metodi diversi prima che sopraggiunga l’inverno. Durante la prima ondata si è affrontato il coronavirus con decisioni unilaterali del governo e dei presidenti delle Regioni e tralascio di ricordare le tante polemiche avvenute. Oggi mi sembra più che mai urgente mettere in piedi un rapporto costruttivo che coinvolga le opposizioni, gli enti locali e i corpi intermedi. Quando si attraversano fasi in cui è in gioco il destino del paese bisogna assolutamente cercare il dialogo con tutti gli attori politici e sociali. Ed è soprattutto il governo che deve attivare   Attraverso quale strumento si può attivare il dialogo nazionale di cui lei parla?  Occorrerebbero davvero gli stati generali. Stati generali per costruire una linea comune e un consenso diffuso sia tra le forze politiche che quelle sociali. Sennò ognuno se ne va per conto suo così come vediamo in questi giorni: la Sardegna chiude tutto, la Campania chiude le scuole, il Lazio e la Lombardia attivano il coprifuoco notturno. Il tutto in un clima da litigioso talk show. Ma questa modalità da si salvi chi può genera grande confusione nei cittadini e seri problemi di coordinamento nella gestione dell’emergenza sanitaria, nonché la protesta di tante categorie produttive. Penso all’industria dello spettacolo e più in generale dell’intrattenimento; penso al commercio, alla ristorazione e al turismo. Categorie oggi allo stremo e che scendono in piazza. Sul piano sociale è molto rischioso andare avanti così fino all’arrivo del vaccino. Per il quale peraltro pare servano ancora diversi mesi prima che sia disponibile.  A me sembra che sia necessario finirla con l’emanazione di decreti decisi nel cuore della notte mettendo tutti davanti al fatto compiuto. Una delle poche cose che ha funzionato in questo drammatico momento è stato l’accordo tra sindacati e Confindustria per la sicurezza sul posto di lavoro. Ma c’è stato un confronto, si è discusso e alla fine si è trovata l’intesa. Intesa che ha funzionato. Perché questo modo di procedere non è stato generalizzato? Mi rendo conto che sia più complicato quando si parla del sistema dell’istruzione o del sistema del trasporto pubblico di un’intera nazione. Ma se non ci si siede attorno a un tavolo con l’intento di risolvere i problemi il risultato è il disordine e lo sbando in cui oggi ci troviamo. D’altra parte non sono certo l’unico a insistere sulla necessità del dialogo. Vorrei ricordare che Mattarella ha più volte battuto con forza su questo tasto e ha invitato le forze politiche a superare le contrapposizioni. Purtroppo finora è rimasto inascoltato.    Intervenendo alla riunione plenaria del Parlamento europeo il commissario all’economia, Paolo Gentiloni, ha sostenuto che il coronavirus creerà milioni di nuovi poveri. Dobbiamo arrenderci a questa fatalità?  Con tutto il rispetto per Gentiloni correggerei la sua affermazione. Innanzitutto dobbiamo renderci conto che da tempo la finanziarizzazione dell’economia e la globalizzazione hanno aumentato la disuguaglianza sociale e creato nuovi poveri. È evidente poi che se su scala europea la pandemia non è contrastata molto meglio di come è stato fatto fino a oggi e se i tempi del Recovery Fund si allungano, allora senz’altro avremo nuovi disoccupati e nuovi poveri. Dunque, anziché fare previsioni forse sarebbe meglio prendere decisioni. Per esempio il sostegno dell’Unione alle economie nazionali andrebbe prolungato rispetto a quanto stabilito fino ad oggi. In questo senso osservo che sia all’interno del Parlamento europeo sia in Germania ci si sta interrogando sulla durata delle iniziative prese da Bruxelles. C’è infatti chi pensa che i limiti temporali fissati vadano estesi è che è necessario aumentare la quota dei finanziamenti a fondo perduto perché la ripresa dell’economia continentale sarà più lunga e più complicata del previsto.  È evidente che un’ipotesi simile ha necessità di risorse aggiuntive. Si tratta di capire dove reperirle. Occorrono idee nuove, non certo aumentare le tasse sulla benzina, i pedaggi autostradali e quant’altro. Ritengo che l’Europa abbia uno strumento formidabile: tassare gli incredibili profitti dei giganti del Web. Cosa sulla quale tutti si dichiarano d’accordo e come talvolta capita è proprio quando si ottiene l’unanimità che non si conclude nulla. Ma oltre a non pagare le tasse, o pagare cifre ridicole, con la pandemia i colossi dell’hi-tech stanno facendo affari d’oro perché una lunga serie di attività si sono spostate su Internet. So bene che l’Europa ha già provato a tassarli e che gli Stati Uniti si sono opposti minacciando di aumentare i dazi dei nostri prodotti che varcano l’oceano. Ma arrivati a questo punto della crisi è un rischio che bisogna correre. Un rischio calcolato perché se è vero che noi abbiamo bisogno del mercato americano è altrettanto vero che il mercato americano ha bisogno di quello europeo.
   24 Ottobre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto


“Attivare un dialogo nazionale per affrontare la pandemia” Perché occorre tassare i giganti del Web di Patrizio Paolinelli
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TRE DOMANDE A GIORGIO BENVENUTO  “La riduzione dell’orario di lavoro non è un panacea” L’inchiesta della Fiom sulla condizione operaia. La riduzione dell’orario di lavoro  di Patrizio Paolinelli  Uber Eats è stata commissariata per caporalato grazie all’inchiesta della magistratura sui rider. Dall’indagine emerge un quadro di sopraffazione da parte dei manager che ricorda i meccanismi di sfruttamento della prima rivoluzione industriale. Perché in questo caso il progresso della tecnologia non conduce al progresso nei rapporti di lavoro?  Perché se la tecnologia non è adattata alla persona l’esito non può che essere la disumanizzazione. I manager avranno pure le loro responsabilità, ma dalla globalizzazione neoliberista non sono messi in condizione di fare altrimenti. Contano solo il risultato e i profitti. Il resto non ha valore. E in questo resto ci sono i lavoratori e i consumatori. Sul piano dei processi produttivi più avanzati, come le piattaforme digitali, è prevalsa la logica secondo la quale la tecnologia non è al servizio delle persone e della dignità umana, ma persone e dignità umana sono al servizio della tecnologia. Ciò porta a un’inevitabile conclusione: lavoratori e consumatori sono numeri e nulla più.  Ovviamente questa disattenzione alla persona va oltre la tecnologia propriamente detta perché è stata accompagnata da politiche del lavoro che, magari partendo da buone intenzioni, alla fine però hanno favorito l’estensione abnorme del precariato, l’aumento degli incidenti sul lavoro e la crescita delle disuguaglianze sociali. In altre parole, il rapporto tra dimensione tecnologica e dimensione umana non è stato guidato. Per esempio non si è investito a sufficienza sulla formazione del personale né sulla scuola né sulla sicurezza e così ci si è ritrovati in balia del mercato.  Per quanto riguarda il caporalato abbiamo delle leggi durissime finalizzate a contrastarlo. Tuttavia ancora oggi si permettono forme di para-schiavismo di vecchio tipo, come nell’agricoltura, e di nuovo tipo, come la consegna dei cibi a domicilio amministrata dall’intelligenza artificiale. Da questa situazione si esce sia svolgendo un’indagine a tutto campo sulle applicazioni delle tecnologie digitali nei processi produttivi sia lottando. E questo è compito del sindacato. Poi spetta alla politica fare le riforme.  È stata recentemente presentata a Milano una ricerca della Fiom sul comparto automobilistico intitolata “Lavorare in fabbrica oggi. Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Fca/Cnhi/Marelli”. Dai risultati dell’inchiesta emerge che a trarre vantaggio dalle riorganizzazioni dei processi produttivi sia la proprietà e che per sei operai su dieci la condizione operaia è peggiorata. Come commenta questi risultati?  Per ragionare sulla condizione di lavoro in fabbrica è necessario ricordare che da anni le trasformazioni dell’industria automobilistica hanno rappresentato un momento di grande divisione del sindacato. Basti ricordare il referendum Mirafiori del 2011. Venendo all’oggi l‘inchiesta della Fiom da lei citata è sicuramente importante perché getta luce su un comparto strategico dell’economia. Ma forse una luce ancora più forte, o altrettanto forte, va gettata su un’altra situazione. E cioè sul fatto che Fca non è nella Confindustria proprio mentre si sta discutendo il rinnovo del contratto nazionale con la stessa Confindustria. Ed è a partire dai contratti che si cambia lo stato delle cose. Quantomeno un contratto nazionale permette di realizzare una solidarietà tra sindacati e tra lavoratori. Mentre i contratti solo aziendali finiscono per assumere un carattere corporativo.   Dunque sull’inchiesta della Fiom occorre riflettere insieme a delle proposte da parte sindacale su come gestire le trasformazioni tecnologiche. Per esempio mi vengono in mente alcune idee che sono state realizzate in Germania, senza per questo copiarle pedissequamente, ma adattandole alla nostra realtà industriale. In Germania l’organizzazione del lavoro consente una verifica da parte dei sindacati e una quota dei profitti è indirizzata a creare nuovi posti di lavoro. Perciò i risultati dell’inchiesta Fiom andrebbero utilizzati al fine di delineare una strategia per il futuro e non per dire che è stato sbagliato quanto fatto negli anni precedenti. In sostanza va messa in atto una proposta che permetta di coniugare l’innovazione e la competitività dell’azienda con un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e l’incremento dell’occupazione.     A fine anno scadrà il blocco dei licenziamenti. Il governo ha annunciato che non lo rinnoverà. Ciò significa che ci saranno centinaia di migliaia di nuovi disoccupati. Per scongiurare questo scenario c’è chi propone la riduzione dell’orario di lavoro. Ritiene che sia una buona soluzione?  Mi permetta una prima osservazione. Abbiamo perso del tempo perché il blocco dei licenziamenti richiedeva che si mettesse in moto un meccanismo in base al quale pensare alla politica del dopo-Covid. Persino l’Europa, che fa passi millimetrici, ha varato un piano ragionando sul domani. Invece in Italia ci si trova in una situazione dove non si è fatta alcuna innovazione e dove c’è un contratto dei metalmeccanici in stallo da più di un anno. Credo che anche il sindacato dovrebbe incalzare il governo per sapere come saranno impiegate le risorse che l’Europa ci ha destinato e di cui finora non si sa niente. La svolta di Bruxelles finalizzata a una trasformazione che garantisca le future generazioni mi sembra che da noi sia vissuta come un’occasione per fare piccoli interventi e non riforme di sistema. Prendiamo proprio l’orario di lavoro. Con l’estensione dello smart working non sarà la contabilità delle ore lavorate a costituire l’oggetto principale della contrattazione. Probabilmente si valuteranno soprattutto i risultati delle prestazioni e altro ancora. Si tratta di un nuovo capitolo nella storia della contrattazione. Un capitolo tutto da scrivere e che comunque ci condurrà ad affrontare in maniera assai diversa rispetto al passato la questione dell’orario di lavoro. In quanto alla sua riduzione per scongiurare nuovi disoccupati in sé e per sé non è una cattiva idea. Ma buttata là così mi sembra più che altro una scorciatoia dettata dalla drammaticità del momento. Bisogna considerare che in un’economia complessa la questione della durata della giornata lavorativa difficilmente può essere risolta con un’idea vincente. Mi chiedo: la riduzione dell’orario di lavoro può essere generalizzata? Non credo. E poi se ne sono valutate le conseguenze in un paese dove il costo del lavoro è più alto rispetto ad altri paesi europei? E allora si può parlare di riduzione dell’orario di lavoro se, tanto per cominciare, la si colloca all’interno di nuove forme di contrattazione e dei modi con cui si impiegheranno i fondi che arriveranno dall’Europa.
   19 Ottobre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto


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TRE DOMANDE A GIORGIO BENVENUTO “Finora abbiamo fatto manovre, è ora di fare riforme” L’Enciclica di Papa Francesco. La Nota di aggiornamento al Def. Lo sciopero dei metalmeccanici  di Patrizio Paolinelli  Cosa l’ha colpita di più dell’Enciclica “Fratelli tutti”?  L’accento che è stato posto sulla forza dialogo. Un dialogo cercato con tutti, direi col mondo intero al di là di ogni differenza. “Fratelli tutti” è un’Enciclica di grande apertura, coerente con la figura di San Francesco d’Assisi. Il quale va in Egitto a visitare il Sultano al-Malik al-Kamil non per convertire né tantomeno per essere convertito, ma per dialogare. Mi pare un messaggio attuale in uno scenario politico oggi caratterizzato da monologhi, polemiche, disistima e distruzione dell’avversario. Rapportarsi col prossimo in questo modo conduce a un vicolo cieco, all’incomunicabilità. Per questo credo che l’Enciclica di Papa Francesco valga come un monito sia per credenti sia per i non credenti.  Dialogare significa capire, avere la forza delle proprie idee, ma anche il desiderio di comprendere quelle degli altri. Se si dialoga davvero si scopre che esistono zone di valutazione comune riguardo al mondo, al futuro e alla convivenza tra esseri umani. Dall’Enciclica di Papa Francesco emerge ancora una volta il valore centrale della persona e anche per questo motivo può essere uno strumento utile per affrontare questo momento di cambiamento impostoci dalla pandemia. Da laico penso che “Fratelli tutti” sia qualcosa di più di un’Enciclica. Mi sembra di poter dire che nessuno può sentirsi escluso dal suo messaggio.  Passiamo ora a cose più materiali. Nella Nota di aggiornamento al Def c’è parecchia carne al fuoco. Per esempio il sostegno ai lavoratori e i settori produttivi maggiormente colpiti dalla pandemia, un programma di investimenti attingendo al Recovery Fund, la riforma fiscale e così via. Ritiene tale Nota una risposta adeguata alla crisi economica in corso?  Le intenzioni del governo sono buone, tuttavia, da un lato, ci si continua a muovere come se i finanziamenti dell’Europa li avessimo già in tasca e, dall’altro, come se fossimo ancora in campagna elettorale. Ma i soldi ancora non ci sono e la campagna elettorale è finita. Ora bisogna avere una strategia. In che senso? Nel senso che finora sono state fatte manovre, mentre occorre fare delle riforme. La differenza è profonda. Le manovre servono per superare qualche ostacolo, mettere una toppa laddove necessario. Le riforme invece hanno un respiro di prospettiva, indicano una strada da percorrere. È venuto il momento di impostare le riforme. Mi rendo conto che abbiamo perso un gran quantità di tempo e ancora lo stiamo perdendo con l’incertezza che per esempio abbiamo sull’utilizzo del Mes. Bisogna recuperare il tempo perduto utilizzando le risorse che ci verranno messe a disposizione da Bruxelles.  L’altra cosa importante da fare sono delle iniziative coerenti con i progetti che permettono di utilizzare i finanziamenti europei. Il metodo è quello che dicevamo prima: dialogare. Con chi? Con i corpi intermedi. Lo so che sono ostinato su questo tema, ma non c’è alternativa se si vuole uscire positivamente dalla crisi. Inoltre vanno messe in campo iniziative che richiedono solo la volontà politica per essere attuate. Misure che non costano e che rendono. Mi riferisco alla vera semplificazione delle leggi e delle norme; a una riforma fiscale che rispetti davvero la progressività prevista dalla nostra Costituzione; a una responsabile ai bisogni dei cittadini; a una digitalizzazione  consapevole, che porti più efficacia e più efficienza. Bene, per realizzare tutto ciò occorre il dialogo con le parti sociali. Se si calano le cose dall’alto come si è fatto finora i risultati saranno molto scarsi.    I metalmeccanici hanno proclamato lo sciopero generale a sostegno della vertenza per il rinnovo del contratto. Data la situazione in cui versa il paese perché non si è evitato che si andasse al muro contro muro?  Perché si è perso tempo. Cosa è rimasto degli Stati generali dell’economia? Neanche il ricordo. Se ne sono dimenticati tutti. Ai primi di giugno il governo ascoltò tutti e a tutti diede ragione. Siamo a ottobre inoltrato e non si è mossa foglia. Il problema non riguarda solo i contratti. Ci sono ristrutturazioni e investimenti da fare e c’è l’automazione che avanza sia nelle fabbriche sia negli uffici. Credo che sia indifferibile un intervento del governo perché con la crisi in corso la situazione diventerà sempre più complicata. È di ieri l’aumento della luce e del gas mentre il potere d’acquisto dei lavoratori diminuisce di anno in anno.  Nel vuoto decisionale del governo è quasi ovvio che sindacati e imprenditori rimangano sulle proprie posizioni e si arrivi al conflitto. Pare che adesso si metta davvero mano a una riforma fiscale. Alla buonora. Non è da oggi che si è a conoscenza dei contratti scaduti e che inevitabilmente sarebbero stati oggetto di trattativa. E allora il compito del governo è mettere in condizione le parti sociali di evitare lo scontro. Tanto più in un momento drammatico come questo. La tassazione sul lavoro è ormai insostenibile così come sono insostenibili retribuzioni così basse come quelle che abbiamo in Italia. Come vede la situazione è paradossale: un posto di lavoro costa tantissimo e il lavoratore guadagna pochissimo. Siccome di questo paradosso si parla da tanto tempo - e tutti sono d’accordo nel dire che non è più sostenibile - era necessario intervenire prima. La conclusione è che se sul costo del lavoro il governo fa proposte si finisce per mettere imprese e sindacati le une contro gli altri.
   12 Ottobre 2020

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