Tre domande a Giorgio Benvenuto


L'italia di ieri, di oggi e di domani.

FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

   19 Ottobre 2020

Tre domande a Giorgio Benvenuto

“La riduzione dell’orario di lavoro non è un panacea”
L’inchiesta della Fiom sulla condizione operaia. La riduzione dell’orario di lavoro

di Patrizio Paolinelli

Uber Eats è stata commissariata per caporalato grazie all’inchiesta della magistratura sui rider. Dall’indagine emerge un quadro di sopraffazione da parte dei manager che ricorda i meccanismi di sfruttamento della prima rivoluzione industriale. Perché in questo caso il progresso della tecnologia non conduce al progresso nei rapporti di lavoro?

Perché se la tecnologia non è adattata alla persona l’esito non può che essere la disumanizzazione. I manager avranno pure le loro responsabilità, ma dalla globalizzazione neoliberista non sono messi in condizione di fare altrimenti. Contano solo il risultato e i profitti. Il resto non ha valore. E in questo resto ci sono i lavoratori e i consumatori. Sul piano dei processi produttivi più avanzati, come le piattaforme digitali, è prevalsa la logica secondo la quale la tecnologia non è al servizio delle persone e della dignità umana, ma persone e dignità umana sono al servizio della tecnologia. Ciò porta a un’inevitabile conclusione: lavoratori e consumatori sono numeri e nulla più.
Ovviamente questa disattenzione alla persona va oltre la tecnologia propriamente detta perché è stata accompagnata da politiche del lavoro che, magari partendo da buone intenzioni, alla fine però hanno favorito l’estensione abnorme del precariato, l’aumento degli incidenti sul lavoro e la crescita delle disuguaglianze sociali. In altre parole, il rapporto tra dimensione tecnologica e dimensione umana non è stato guidato. Per esempio non si è investito a sufficienza sulla formazione del personale né sulla scuola né sulla sicurezza e così ci si è ritrovati in balia del mercato.
Per quanto riguarda il caporalato abbiamo delle leggi durissime finalizzate a contrastarlo. Tuttavia ancora oggi si permettono forme di para-schiavismo di vecchio tipo, come nell’agricoltura, e di nuovo tipo, come la consegna dei cibi a domicilio amministrata dall’intelligenza artificiale. Da questa situazione si esce sia svolgendo un’indagine a tutto campo sulle applicazioni delle tecnologie digitali nei processi produttivi sia lottando. E questo è compito del sindacato. Poi spetta alla politica fare le riforme.

È stata recentemente presentata a Milano una ricerca della Fiom sul comparto automobilistico intitolata “Lavorare in fabbrica oggi. Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Fca/Cnhi/Marelli”. Dai risultati dell’inchiesta emerge che a trarre vantaggio dalle riorganizzazioni dei processi produttivi sia la proprietà e che per sei operai su dieci la condizione operaia è peggiorata. Come commenta questi risultati?

Per ragionare sulla condizione di lavoro in fabbrica è necessario ricordare che da anni le trasformazioni dell’industria automobilistica hanno rappresentato un momento di grande divisione del sindacato. Basti ricordare il referendum Mirafiori del 2011. Venendo all’oggi l‘inchiesta della Fiom da lei citata è sicuramente importante perché getta luce su un comparto strategico dell’economia. Ma forse una luce ancora più forte, o altrettanto forte, va gettata su un’altra situazione. E cioè sul fatto che Fca non è nella Confindustria proprio mentre si sta discutendo il rinnovo del contratto nazionale con la stessa Confindustria. Ed è a partire dai contratti che si cambia lo stato delle cose. Quantomeno un contratto nazionale permette di realizzare una solidarietà tra sindacati e tra lavoratori. Mentre i contratti solo aziendali finiscono per assumere un carattere corporativo.

Dunque sull’inchiesta della Fiom occorre riflettere insieme a delle proposte da parte sindacale su come gestire le trasformazioni tecnologiche. Per esempio mi vengono in mente alcune idee che sono state realizzate in Germania, senza per questo copiarle pedissequamente, ma adattandole alla nostra realtà industriale. In Germania l’organizzazione del lavoro consente una verifica da parte dei sindacati e una quota dei profitti è indirizzata a creare nuovi posti di lavoro. Perciò i risultati dell’inchiesta Fiom andrebbero utilizzati al fine di delineare una strategia per il futuro e non per dire che è stato sbagliato quanto fatto negli anni precedenti. In sostanza va messa in atto una proposta che permetta di coniugare l’innovazione e la competitività dell’azienda con un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e l’incremento dell’occupazione.
A fine anno scadrà il blocco dei licenziamenti. Il governo ha annunciato che non lo rinnoverà. Ciò significa che ci saranno centinaia di migliaia di nuovi disoccupati. Per scongiurare questo scenario c’è chi propone la riduzione dell’orario di lavoro. Ritiene che sia una buona soluzione?

Mi permetta una prima osservazione. Abbiamo perso del tempo perché il blocco dei licenziamenti richiedeva che si mettesse in moto un meccanismo in base al quale pensare alla politica del dopo-Covid. Persino l’Europa, che fa passi millimetrici, ha varato un piano ragionando sul domani. Invece in Italia ci si trova in una situazione dove non si è fatta alcuna innovazione e dove c’è un contratto dei metalmeccanici in stallo da più di un anno. Credo che anche il sindacato dovrebbe incalzare il governo per sapere come saranno impiegate le risorse che l’Europa ci ha destinato e di cui finora non si sa niente. La svolta di Bruxelles finalizzata a una trasformazione che garantisca le future generazioni mi sembra che da noi sia vissuta come un’occasione per fare piccoli interventi e non riforme di sistema.
Prendiamo proprio l’orario di lavoro. Con l’estensione dello smart working non sarà la contabilità delle ore lavorate a costituire l’oggetto principale della contrattazione. Probabilmente si valuteranno soprattutto i risultati delle prestazioni e altro ancora. Si tratta di un nuovo capitolo nella storia della contrattazione. Un capitolo tutto da scrivere e che comunque ci condurrà ad affrontare in maniera assai diversa rispetto al passato la questione dell’orario di lavoro. In quanto alla sua riduzione per scongiurare nuovi disoccupati in sé e per sé non è una cattiva idea. Ma buttata là così mi sembra più che altro una scorciatoia dettata dalla drammaticità del momento. Bisogna considerare che in un’economia complessa la questione della durata della giornata lavorativa difficilmente può essere risolta con un’idea vincente. Mi chiedo: la riduzione dell’orario di lavoro può essere generalizzata? Non credo. E poi se ne sono valutate le conseguenze in un paese dove il costo del lavoro è più alto rispetto ad altri paesi europei? E allora si può parlare di riduzione dell’orario di lavoro se, tanto per cominciare, la si colloca all’interno di nuove forme di contrattazione e dei modi con cui si impiegheranno i fondi che arriveranno dall’Europa.


TRE DOMANDE A GIORGIO BENVENUTO  “La riduzione dell’orario di lavoro non è un panacea” L’inchiesta della Fiom sulla condizione operaia. La riduzione dell’orario di lavoro  di Patrizio Paolinelli  Uber Eats è stata commissariata per caporalato grazie all’inchiesta della magistratura sui rider. Dall’indagine emerge un quadro di sopraffazione da parte dei manager che ricorda i meccanismi di sfruttamento della prima rivoluzione industriale. Perché in questo caso il progresso della tecnologia non conduce al progresso nei rapporti di lavoro?  Perché se la tecnologia non è adattata alla persona l’esito non può che essere la disumanizzazione. I manager avranno pure le loro responsabilità, ma dalla globalizzazione neoliberista non sono messi in condizione di fare altrimenti. Contano solo il risultato e i profitti. Il resto non ha valore. E in questo resto ci sono i lavoratori e i consumatori. Sul piano dei processi produttivi più avanzati, come le piattaforme digitali, è prevalsa la logica secondo la quale la tecnologia non è al servizio delle persone e della dignità umana, ma persone e dignità umana sono al servizio della tecnologia. Ciò porta a un’inevitabile conclusione: lavoratori e consumatori sono numeri e nulla più.  Ovviamente questa disattenzione alla persona va oltre la tecnologia propriamente detta perché è stata accompagnata da politiche del lavoro che, magari partendo da buone intenzioni, alla fine però hanno favorito l’estensione abnorme del precariato, l’aumento degli incidenti sul lavoro e la crescita delle disuguaglianze sociali. In altre parole, il rapporto tra dimensione tecnologica e dimensione umana non è stato guidato. Per esempio non si è investito a sufficienza sulla formazione del personale né sulla scuola né sulla sicurezza e così ci si è ritrovati in balia del mercato.  Per quanto riguarda il caporalato abbiamo delle leggi durissime finalizzate a contrastarlo. Tuttavia ancora oggi si permettono forme di para-schiavismo di vecchio tipo, come nell’agricoltura, e di nuovo tipo, come la consegna dei cibi a domicilio amministrata dall’intelligenza artificiale. Da questa situazione si esce sia svolgendo un’indagine a tutto campo sulle applicazioni delle tecnologie digitali nei processi produttivi sia lottando. E questo è compito del sindacato. Poi spetta alla politica fare le riforme.  È stata recentemente presentata a Milano una ricerca della Fiom sul comparto automobilistico intitolata “Lavorare in fabbrica oggi. Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Fca/Cnhi/Marelli”. Dai risultati dell’inchiesta emerge che a trarre vantaggio dalle riorganizzazioni dei processi produttivi sia la proprietà e che per sei operai su dieci la condizione operaia è peggiorata. Come commenta questi risultati?  Per ragionare sulla condizione di lavoro in fabbrica è necessario ricordare che da anni le trasformazioni dell’industria automobilistica hanno rappresentato un momento di grande divisione del sindacato. Basti ricordare il referendum Mirafiori del 2011. Venendo all’oggi l‘inchiesta della Fiom da lei citata è sicuramente importante perché getta luce su un comparto strategico dell’economia. Ma forse una luce ancora più forte, o altrettanto forte, va gettata su un’altra situazione. E cioè sul fatto che Fca non è nella Confindustria proprio mentre si sta discutendo il rinnovo del contratto nazionale con la stessa Confindustria. Ed è a partire dai contratti che si cambia lo stato delle cose. Quantomeno un contratto nazionale permette di realizzare una solidarietà tra sindacati e tra lavoratori. Mentre i contratti solo aziendali finiscono per assumere un carattere corporativo.   Dunque sull’inchiesta della Fiom occorre riflettere insieme a delle proposte da parte sindacale su come gestire le trasformazioni tecnologiche. Per esempio mi vengono in mente alcune idee che sono state realizzate in Germania, senza per questo copiarle pedissequamente, ma adattandole alla nostra realtà industriale. In Germania l’organizzazione del lavoro consente una verifica da parte dei sindacati e una quota dei profitti è indirizzata a creare nuovi posti di lavoro. Perciò i risultati dell’inchiesta Fiom andrebbero utilizzati al fine di delineare una strategia per il futuro e non per dire che è stato sbagliato quanto fatto negli anni precedenti. In sostanza va messa in atto una proposta che permetta di coniugare l’innovazione e la competitività dell’azienda con un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e l’incremento dell’occupazione.     A fine anno scadrà il blocco dei licenziamenti. Il governo ha annunciato che non lo rinnoverà. Ciò significa che ci saranno centinaia di migliaia di nuovi disoccupati. Per scongiurare questo scenario c’è chi propone la riduzione dell’orario di lavoro. Ritiene che sia una buona soluzione?  Mi permetta una prima osservazione. Abbiamo perso del tempo perché il blocco dei licenziamenti richiedeva che si mettesse in moto un meccanismo in base al quale pensare alla politica del dopo-Covid. Persino l’Europa, che fa passi millimetrici, ha varato un piano ragionando sul domani. Invece in Italia ci si trova in una situazione dove non si è fatta alcuna innovazione e dove c’è un contratto dei metalmeccanici in stallo da più di un anno. Credo che anche il sindacato dovrebbe incalzare il governo per sapere come saranno impiegate le risorse che l’Europa ci ha destinato e di cui finora non si sa niente. La svolta di Bruxelles finalizzata a una trasformazione che garantisca le future generazioni mi sembra che da noi sia vissuta come un’occasione per fare piccoli interventi e non riforme di sistema. Prendiamo proprio l’orario di lavoro. Con l’estensione dello smart working non sarà la contabilità delle ore lavorate a costituire l’oggetto principale della contrattazione. Probabilmente si valuteranno soprattutto i risultati delle prestazioni e altro ancora. Si tratta di un nuovo capitolo nella storia della contrattazione. Un capitolo tutto da scrivere e che comunque ci condurrà ad affrontare in maniera assai diversa rispetto al passato la questione dell’orario di lavoro. In quanto alla sua riduzione per scongiurare nuovi disoccupati in sé e per sé non è una cattiva idea. Ma buttata là così mi sembra più che altro una scorciatoia dettata dalla drammaticità del momento. Bisogna considerare che in un’economia complessa la questione della durata della giornata lavorativa difficilmente può essere risolta con un’idea vincente. Mi chiedo: la riduzione dell’orario di lavoro può essere generalizzata? Non credo. E poi se ne sono valutate le conseguenze in un paese dove il costo del lavoro è più alto rispetto ad altri paesi europei? E allora si può parlare di riduzione dell’orario di lavoro se, tanto per cominciare, la si colloca all’interno di nuove forme di contrattazione e dei modi con cui si impiegheranno i fondi che arriveranno dall’Europa.

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