LO SPIRITO DEL 1945 IN ITALIA: IL GOVERNO PARRI SETTANTACINQUE ANNI DOPO di Michelangelo Ingrassia


L'italia di ieri, di oggi e di domani.

FONDAZIONE BRUNO BUOZZI

   04 Dicembre 2020

LO SPIRITO DEL 1945 IN ITALIA: IL GOVERNO PARRI SETTANTACINQUE ANNI DOPO di Michelangelo Ingrassia

Fra transizione e trasformazione
L’anno della Liberazione è stato forzatamente incluso e stemperato dalla storiografia nella lunga periodizzazione storica definita generalmente “della transizione”, che inizia nel 1943 e termina nel 1948 con il passaggio dall’Italia monarchica e fascista all’Italia repubblicana e costituzionale.
Il concetto storiografico di “transizione”, tuttavia, contrasta vigorosamente con la rappresentazione storica della “Liberazione”.
La transizione presuppone un mutamento storico limitato, nel quale convivono forma e sostanza della continuità e della discontinuità con il passato. La Liberazione, invece, implica un mutamento storico radicale, che non ammette soluzione di continuità con il passato da cui ci si vuole appunto liberare e contro il quale si resiste e insorge.
Incastrare il 1945 all’interno di un ciclo storico e ridurlo a uno dei molti momenti di un’epoca di transizione, equivale a disconoscere la carica emotiva e politica di assoluta rottura che l’anno della Liberazione contiene. Il 1945, infatti, possiede una sua formidabile “unicità” storica, rispetto al 1943 e al 1948, che lo distingue nel tempo storico compreso tra le due date; interpreta quello che i tedeschi definiscono Zeitgeist, spirito dei tempi. Il 1945, insomma, rompe violentemente con il passato e irrompe tra le macerie della vecchia storia con una propria volontà di potenza rivoluzionaria e morale, creatrice di una storia nuova.
Nel 1945 finiva una guerra che era stata il campo di battaglia dei continenti ideologici che si erano sedimentati nella geografia sociale e politica mondiale del Novecento. Il liberalismo e il comunismo avevano sconfitto, uniti, il nazifascismo. L’immane conflitto aveva tuttavia spianato il cammino a una tendenza ideologica che anch’essa, come il liberalismo e il comunismo, veniva da lontano: quella della democrazia radicale, sociale, che nel corso dell’Ottocento aveva conteso la scena al liberalismo, al comunismo e al nazionalismo mediante il riformismo sociale francese, il laburismo inglese, il socialismo della cattedra tedesco, la democrazia rivoluzionaria italiana. Sconfitta ed eliminata nel primo dopoguerra dai fascismi, questa tendenza diventa energia intellettuale nell’antifascismo, proponendosi di trasformare l’alleanza militare tra liberalismo e comunismo in una cultura politica moderna, fondata sulla sintesi democratica tra individuo e comunità, capitale e lavoro, riforma e rivoluzione, giustizia sociale e libertà personale.
È quest’idea politica e sociale della democrazia che il vento della Liberazione agita nel 1945, quando sconfitto ed eliminato dalla storia il nazifascismo occorre dare un orizzonte politico inedito all’alleanza militare tra liberalismo e comunismo. In questo senso non la transizione ma la Liberazione incarnava lo spirito del 1945. Elemento tangibile della liberazione era non la mediazione ma la trasformazione. Lo spiega Hobsbawm scrivendo che: «tutte le tre aree del mondo procedevano nell’epoca postbellica con la convinzione che la vittoria sulle nazioni del Patto tripartito, acquisita con la mobilitazione politica antifascista e con indirizzi politici rivoluzionari, come pure col ferro e col sangue, aprisse una nuova epoca di trasformazione sociale».
Se la versione politica della trasformazione sociale era la rivoluzione democratica, la sua manifestazione economica stava nel principio dell’iniziativa pubblica. È ancora Hobsbawm a evidenziarlo osservando che «dopo il 1945 tutti questi paesi respinsero nelle intenzioni e nei fatti l’economia di mercato e aderirono ai principi della direzione pubblica e della pianificazione statale» dell’economia.
È questo spirito di liberazione e di trasformazione del 1945 che sospinge popoli e nazioni verso la democrazia radicale. Nella Gran Bretagna del 1945 a vincere le elezioni di luglio non sono i conservatori di Churchill ma i laburisti di Clement Attlee con la parola d’ordine never again, mai più, scagliata contro la società dei pochi privilegiati e della disoccupazione di massa. In breve tempo, e abbandonando il vecchio principio del gradualismo, il governo laburista riuscì a concretare il socialismo dentro la democrazia: i settori dell’energia elettrica, della sanità, dell’acqua, dei trasporti furono tutti nazionalizzati; il Welfare State potenziato; una poderosa azione riformista rivoluzionò l’intera società britannica realizzando riforme senza precedenti nella storia del Regno Unito. Il governo di Attlee si era richiamato al senso di comunità e aveva mobilitato il sentimento collettivo del popolo, che in guerra aveva resistito alla minaccia nazista e ai suoi terribili bombardamenti. Non a caso è significativamente intitolato The Spirit of ’45 l’interessante documentario che il regista Ken Loach ha dedicato alla storia del primo governo laburista inglese. Anche in Belgio, nei Paesi Bassi e nei paesi scandinavi è praticata una trasformazione sociale che caratterizzerà
finanche il mondo decolonizzato e l’Europa dell’est, naturalmente con tutti i limiti che la storia registra e che attendono ancora di essere analizzati e contestualizzati fuori dallo schema della “Guerra fredda”.
Pure in Francia, annota Stéphane Hessel rievocando le conquiste sociali della Resistenza oggi rimesse in discussione e abolite, «a partire dal 1945, dopo una spaventosa tragedia, le forze in seno al Consiglio della Resistenza si votano a un’ambiziosa risurrezione. È allora, rammentiamolo, che nasce la Sécurité sociale così come la Resistenza l’auspicava, come il suo programma prevedeva».
Nell’anno della Liberazione pure in Italia lo spirito del 1945 ispirava uomini, movimenti e idee. Aveva cominciato a manifestarsi nelle repubbliche partigiane, che sperimentarono l’autogoverno democratico in quel laboratorio politico che anche fu il movimento partigiano; nelle leghe sindacali, che organizzarono le lotte sociali nel Meridione; nei Comitati di Liberazione Nazionale sorti in ogni regione, in ogni città, in ogni azienda ed esaltati da Piero Calamandrei, il quale all’indomani dell’insurrezione popolare ne rivendica la funzione rivoluzionaria affermando che: «durante il periodo della lotta clandestina le sole forze politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste stesse forze, e a esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il nuovo Stato italiano. A esse sole: questo è uno dei punti su cui occorre avere idee chiare».
Si tratta di movimenti sempre più dinamici, che spingono in direzione non di un’ordinaria transizione ma di una straordinaria trasformazione della vecchia realtà. In questo senso si può dire che con la Liberazione del 25 aprile 1945 erompeva una domanda rivoluzionaria di grande trasformazione delle strutture politiche, sociali, economiche, culturali, istituzionali del paese. Morto l’8 settembre 1943 lo Stato liberale e monarchico generato nel 1861 dalla soluzione moderata del Risorgimento, liberata dal nazifascismo la Patria, si trattava adesso di ricostruire una nuova Italia con i materiali culturali e politici forgiati nelle fucine del Risorgimento e della Resistenza; scolpendo, nel cantiere della Costituente, la roccia della democrazia rivoluzionaria risorgimentale con gli strumenti di autogoverno e di autogestione temprati dalla Resistenza.
Se l’Italia era contemporaneamente attraversata da una tendenza alla continuità del vecchio Stato, che rimetteva in discussione la “costituzione provvisoria” già approvata nel giugno 1944, tuttavia lo spirito del ’45 si espandeva vigorosamente sulla scia dell’insurrezione armata e dell’avvincente immagine di trasformazione che essa ispirava alle masse popolari. È in questo scenario politico generato dall’insurrezione armata che entra in azione Ferruccio Parri.
Il Governo della Liberazione
Tornato direttamente dal campo di battaglia della guerra partigiana, che gli altri leader politici avevano vissuto da lontano; esponente di punta dell’unico partito che non aveva alcun legame con il passato prefascista, il Partito d’Azione; estraneo al sistema politico prefascista del quale invece Bonomi, Nenni, De Gasperi, Croce avevano a vario titolo fatto parte (alcuni addirittura a contatto persino col Mussolini ancora socialista, altri sostenendolo col voto in Parlamento fino al 1925), Ferruccio Parri è l’uomo politico nuovo che incarna e interpreta lo spirito del 1945 italiano.
Ancor prima di essere indicato come Presidente del Consiglio, aveva pubblicamente affermato da Roma che «in virtù della guerra partigiana si è determinata una situazione profondamente diversa da quella che ispira la politica attuale, e noi siamo venuti per rappresentare al governo la necessità che la politica italiana si adegui alla situazione nuova [...] il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento».
Con questa convinzione ideale Parri accoglie la richiesta formulata dai sei segretari dei partiti del CLN di presiedere il primo governo dell’Italia liberata. Mobilitando il mito storico e politico del secondo Risorgimento, s’inserisce nella sfida tra continuità e rottura, transizione e trasformazione, prefiggendosi d’interrompere e rompere la tendenza alla continuità e alla transizione.
Indicative le dichiarazioni che accompagnano il suo esordio e nelle quali risuona l’eco del suo prediletto Giuseppe Mazzini, che nel discorso pronunciato il 10 marzo 1849 all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, aveva esaltato l’armonico legame tra governo e popolo. Anche Parri, dopo avere ricordato che il suo governo aveva origine dal popolo, dichiarava nel suo primo discorso da Presidente che «Governo e popolo sono la nostra idea, non sono due entità distinte e quasi avverse. Questo governo [...] è governo di popolo e deve governare per il popolo: tutto il popolo, senza distinzione di partiti e soprattutto oltre i partiti, senza distinzioni di regioni».
Ancora prima si era appellato a quegli uomini e donne che rappresentavano la base militante e combattente della guerra partigiana; lo ricorda Alessandro Galante Garrone che racconta: «il 14 giugno 1945, durante le
consultazioni per dar vita a un nuovo governo, in una saletta di Montecitorio Parri iniziava il suo discorso con queste parole: “io sono qui il signor partigiano qualunque”».
Queste immagini del secondo Risorgimento, del partigiano comune, del governo oltre i partiti, sollevano consenso negli ambienti più diversi e anche lontani dallo stesso Parri e dal suo partito.
Sono i riverberi dell’entusiasmo popolare che accoglie e saluta in Ferruccio Parri il partigiano qualunque, l’uomo onesto, l’eroe popolare, il simbolo della Resistenza. Un entusiasmo che si lega all’ardore proveniente dalla base partigiana operante nei Comitati di Liberazione, militante nei partiti antifascisti, ritornata nelle case, nelle fabbriche, nei campi, negli impieghi, nella quotidianità.
È indubbio che il sentimento di attesa che si diffuse a livello popolare tra la fine del governo Bonomi e l’inizio del governo Parri abbia contribuito a determinare nel paese il bisogno psicologico di un fatto nuovo, da cui ricominciare. Questo bisogno psicologico, l’entusiasmo dell’opinione pubblica, l’ardore della base partigiana conferiscono a Parri, nelle prime settimane di vita del suo esecutivo, un carisma che egli tenta di rappresentare .
Questo elemento carismatico Ferruccio Parri lo riteneva necessario per alimentare, diffondere e difendere lo spirito del 1945: il valore della lotta partigiana come guerra di Liberazione anche politica, la Resistenza come rivoluzione democratica, l’unità antifascista come soggetto collettivo d’ideali comuni. È stata biasimata a Parri un’attenzione eccessiva alla pedagogia civile piuttosto che ad altre questioni ritenute più importanti; si sottovaluta, però, il fronte culturale e ideologico della battaglia politica che Parri conduce nei cinque mesi del suo governo. Come contrastare la tendenza politica alla continuità del vecchio Stato e alla transizione se non popolarizzando il significato della Resistenza? Parri non perde occasione, prima e durante il suo mandato, di appellarsi al sangue dei caduti, alla dura lotta del partigiano, agli ideali per i quali tanti giovani avevano sacrificato la vita; per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importanza della Costituente nel costruire il presente e il futuro del Paese.
All’indomani della formazione del suo governo, il 23 giugno, in un radiomessaggio indirizzato al popolo italiano, dichiara: «voi, papà e mamme d’Italia, alle prese con lo spinosissimo problema giornaliero del pranzo e della cena, voi vedete in prima linea le necessità materiali. Lasciate che io metta in prima linea il lato morale [...] è la premessa di tutto, la premessa di ogni risurrezione. Abbiamo bisogno di una lunga e tenace opera di educazione civile che ci liberi da un triste passato e da antiche eredità, che dia agli italiani il senso della serietà morale [...] Ed anche il problema politico è d’importanza primordiale. La Costituente, papà e mamme d’Italia, non sfama i vostri figli. Ma se noi non arriviamo, e presto e ordinatamente, a dare all’Italia un nuovo assetto organico, perdiamo il frutto della nostra liberazione, perdiamo la possibilità per domani di governare, di amministrare e di ricostruire, perdiamo la stessa libertà, ed i nostri caduti saranno caduti invano. Per questo ci hanno chiamato e ci siamo chiamati il governo della Costituente, perché la Costituente sarà il coronamento della lotta di liberazione, il fondamento della nuova società italiana, prologo della nuova storia».
In questo richiamo emozionante alla forza morale, all’educazione civile, al popolo dei papà e delle mamme alle prese con le esigenze materiali, al sangue dei caduti, al prologo di una nuova storia, c’è tutto lo spirito del 1945 italiano che Parri porta al Viminale insieme all’esperienza unitaria della guerra di Liberazione e alla parola d’ordine del primo e del secondo Risorgimento: la Costituente.
Secondo l’interpretazione corrente Parri si sarebbe lasciato ingenuamente ingannare dai partiti credendo davvero che il suo sarebbe stato il “governo della Costituente”, ossia della rivoluzionaria svolta democratica proiettata di là del vecchio regime liberale.
Non si tiene in conto, però, che Parri aveva già vissuto la drammatica esperienza del primo dopoguerra italiano, che pur avendo sprigionato una situazione rivoluzionaria nello stesso momento in cui il vecchio Stato liberale deperiva in una crisi mortale, era poi sboccato nel fascismo per l’inadeguatezza del riformismo, l’inconcludenza del massimalismo e l’esiguità del movimento democratico. Ora, nel 1945, quella situazione storica si ripeteva ma non gli sfuggiva che il quadro era mutato: il fascismo sconfitto, lo Stato liberale esaurito, l’antifascismo potente e consacrato da una vittoriosa insurrezione armata che doveva essere proseguita politicamente.
Ed è quello che tenta di fare: la liberazione politica dopo la liberazione armata. L’1 settembre 1945, al primo congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale Alta Italia, dirà alla platea dei partigiani: «voi avete il dovere di riuscire a mantenere la collaborazione di gruppi sociali e di partiti diversi su un punto di incontro e di equilibrio, che è il solo modo di dare il vostro efficace contributo all’opera di ricostruzione [...] Se riuscite a mantenere questa posizione centrale di equilibrio della vita politica italiana [...] se riuscite ad esser capaci voi partiti, voi tutti partiti, di una autolimitazione delle vostre possibilità [...] è il solo modo [...] per arrivare alla Costituente. Vi è dunque [...] uno sforzo di contemperamenti di situazioni particolari di partiti, che vi
aspettano, e se voi riuscirete, darete una prova che sarà la seconda dopo quella che avete dato, di capacità di liberazione del popolo italiano: la prova della sua maturità politica».
Né a Parri sfuggiva che la Resistenza subiva il condizionamento degli Alleati, soprattutto dopo che a Roosevelt era succeduto Truman, e dei partiti, ancora una volta incapaci di gestire un’autentica situazione rivoluzionaria e tarlati dalla vocazione partitocentrica (quando non partitocratica). Proprio per questo egli, accettando l’incarico di Presidente del Consiglio, pone come condizione politica la realizzazione della Costituente, che altro non significava se non la realizzazione del mandato politico elaborato nel giugno 1944 dai partiti antifascisti uniti e solennemente approvato dal governo allora in carica. Tornando a quella parola d’ordine originaria, Parri tenta di bloccare ai partiti le vie di fuga in avanti e in direzione opposta che mostrano di voler imboccare, e indica la via dell’antifascismo unito in una sola e compatta forza protesa verso la trasformazione.
Come scrive Giorgio Vaccarino, insomma, «tutta la storia del governo Parri è una lotta fra i disegni, per quanto possibile avanzati, di una ricostruzione democratica e le soluzioni a volta a volta compromissorie che la situazione imponeva». Una lotta rivelatrice delle posizioni che maturarono all’interno della Resistenza non sulla linea di confine nord/sud, secondo la nota e ancora oggi prevalente tesi di Federico Chabod, ma sulla bisettrice politico-culturale che taglia l’antifascismo in due poli distinti e contrapposti: il polo della continuità e quello della trasformazione. Lentamente, nel corso del tempo, secondo gli interessi particolari, i partiti antifascisti pendolarono da un polo all’altro prima di scegliere definitivamente dove posizionarsi, separandosi e sgretolando così l’unità antifascista.
Può certamente apparire irreale, col senno di poi, l’enfasi sulla Costituente. Questo “irrealismo”, però, è una risorsa politica che Parri adopera contro il realismo politico dei suoi avversari visibili e invisibili. È il Parri mazziniano, in realtà, che viene fuori a sfidare i moderni seguaci del Machiavelli. Per una singolare coincidenza della storia, alcuni mesi prima, nel marzo 1945, Guido Dorso, che di Parri fu amico, aveva pubblicato sulla rivista L’Acropoli un saggio dedicato al «Mazzini politico dell’irrealtà». Il pensatore repubblicano è studiato come chi sfida la realtà politica e le forze, le istituzioni, i ceti, i loro equilibri, compromessi, accomodamenti, piegamenti, in essa operanti. Attraverso Mazzini, Dorso avverte che il 1945 richiede la concentrazione assoluta in una sola idea che altra non può essere che la revisione critica di tutto il processo di formazione e di dissoluzione dello Stato storico italiano: dal “capolavoro diplomatico- istituzionale” di Cavour alla disfatta della “diarchia” sabaudo-fascista. Il 1945 parve a Dorso il momento di volgersi a Mazzini.
Si potrebbe dire che fu precisamente quello che fece Ferruccio Parri nel suo governo. Se l’Italia aveva bisogno di una politica dell’irrealtà, egli gliela offrì: senza eccessive illusioni ma anche senza colpevoli rassegnazioni, com’era nel suo carattere e nel suo stile, duellando contro la realtà politica del suo tempo e i suoi equilibrismi, compromessi, istituzioni, partiti.
Lo scontro decisivo avvenne il 26 settembre 1945 nell’aula della Consulta Nazionale. Aveva la parola Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, mazziniano, Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia appena liberata dal nazifascismo. A un certo punto della sua orazione, rivolse all’assemblea le seguenti parole: «quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione d’incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica [...] tenete presente che da noi la democrazia è appena agli inizi [...] Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo [proteste di parte dell’assemblea, commenti, rumori, Parri è fatto bersaglio d’interruzioni, i consultori si schierano apostrofandosi a vicenda, faticosamente Parri riprende la parola] mi rincresce che la mia definizione sia stata mala accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali».
Contro Parri, intervenne Benedetto Croce nella sua veste di leader del Partito Liberale Italiano. Difese la realtà dello Stato liberale affermando che esso aveva consentito l’evoluzione materiale e morale degli italiani, i quali giunsero al suffragio universale, poterono fondare associazioni e camere del lavoro, ottennero il diritto di sciopero, ebbero rappresentanti socialisti in Parlamento; infine, chiarì: «democrazia senza dubbio liberale perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la via alle dittature e ai dispotismi».
Il Presidente Parri così replicò nella seduta del 2 ottobre: «alla qualificazione di democrazia, alla qualifica di democratico, io annetto connotati politici determinati, che non riconosco in atto neppure oggi. Oggi abbiamo una volontà democratica non un regime, non un costume politico democratico».
Ricomparivano in quel dibattito le fasi della lotta tra liberali e democratici che aveva sconvolto l’Italia da Cavour a Giolitti, compreso la lunga e triste storia di repressioni sociali che il regime liberale aveva commesso e che Croce adesso evitava di ricordare nel suo discorso.
Poche settimane dopo i ministri liberali abbandonarono il governo, seguiti dai ministri democristiani, e Parri fu costretto a dimettersi. Sfidando la realtà aveva tentato di spezzare quella linea della transizione che si sovrapponeva sempre più sull’altra della trasformazione, richiamandosi a quella rivoluzione democratica che era stata del Risorgimento e che ritornava con la Resistenza. Sarà sconfitto, come Mazzini prima di lui; e il Partito d’Azione nato dalla Resistenza si dissolverà, com’era già capitato al Partito d’Azione nato dal Risorgimento.
Insediatosi il 21 giugno 1945, il governo Parri rimarrà in carica fino al 24 novembre successivo, quando il suo Presidente darà le dimissioni.
Il Governo nato dalla Resistenza cesserà le sue funzioni il 10 dicembre 1945, mentre il mondo uscito definitivamente dalla guerra intravedeva comparire all’orizzonte una minacciosa cortina di ferro; del resto, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, il 1945 non aveva generato alcuna trasformazione epocale ed era anzi prevalsa una sostanziale continuità con il passato, che addirittura in America giunse a recuperare con Truman quelle politiche economiche liberaliste che il New Deal aveva creduto di archiviare. Quello stesso Truman cui Parri stava antipatico. Prova ne sia che l’italo-americano Amedeo Giannini, Presidente della Banca d’America e d’Italia, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Napoli il 15 novembre 1945, dieci giorni prima le dimissioni di Parri, aveva dichiarato che «l’alta banca e l’alta industria americana non avrebbero mosso un dito in nostro favore finché non avessero visto la casa in ordine».
Che cosa resta oggi, di indispensabile per il presente, di questa storia? Forse rimane una chiave di lettura per interpretare l’angoscioso destino di una Costituzione nata da una volontà trasformatrice ma rimasta impaludata nelle sabbie mobili di un’interminabile e interminata transizione.


Fra transizione e trasformazione L’anno della Liberazione è stato forzatamente incluso e stemperato dalla storiografia nella lunga periodizzazione storica definita generalmente “della transizione”, che inizia nel 1943 e termina nel 1948 con il passaggio dall’Italia monarchica e fascista all’Italia repubblicana e costituzionale. Il concetto storiografico di “transizione”, tuttavia, contrasta vigorosamente con la rappresentazione storica della “Liberazione”. La transizione presuppone un mutamento storico limitato, nel quale convivono forma e sostanza della continuità e della discontinuità con il passato. La Liberazione, invece, implica un mutamento storico radicale, che non ammette soluzione di continuità con il passato da cui ci si vuole appunto liberare e contro il quale si resiste e insorge. Incastrare il 1945 all’interno di un ciclo storico e ridurlo a uno dei molti momenti di un’epoca di transizione, equivale a disconoscere la carica emotiva e politica di assoluta rottura che l’anno della Liberazione contiene. Il 1945, infatti, possiede una sua formidabile “unicità” storica, rispetto al 1943 e al 1948, che lo distingue nel tempo storico compreso tra le due date; interpreta quello che i tedeschi definiscono Zeitgeist, spirito dei tempi. Il 1945, insomma, rompe violentemente con il passato e irrompe tra le macerie della vecchia storia con una propria volontà di potenza rivoluzionaria e morale, creatrice di una storia nuova. Nel 1945 finiva una guerra che era stata il campo di battaglia dei continenti ideologici che si erano sedimentati nella geografia sociale e politica mondiale del Novecento. Il liberalismo e il comunismo avevano sconfitto, uniti, il nazifascismo. L’immane conflitto aveva tuttavia spianato il cammino a una tendenza ideologica che anch’essa, come il liberalismo e il comunismo, veniva da lontano: quella della democrazia radicale, sociale, che nel corso dell’Ottocento aveva conteso la scena al liberalismo, al comunismo e al nazionalismo mediante il riformismo sociale francese, il laburismo inglese, il socialismo della cattedra tedesco, la democrazia rivoluzionaria italiana. Sconfitta ed eliminata nel primo dopoguerra dai fascismi, questa tendenza diventa energia intellettuale nell’antifascismo, proponendosi di trasformare l’alleanza militare tra liberalismo e comunismo in una cultura politica moderna, fondata sulla sintesi democratica tra individuo e comunità, capitale e lavoro, riforma e rivoluzione, giustizia sociale e libertà personale. È quest’idea politica e sociale della democrazia che il vento della Liberazione agita nel 1945, quando sconfitto ed eliminato dalla storia il nazifascismo occorre dare un orizzonte politico inedito all’alleanza militare tra liberalismo e comunismo. In questo senso non la transizione ma la Liberazione incarnava lo spirito del 1945. Elemento tangibile della liberazione era non la mediazione ma la trasformazione. Lo spiega Hobsbawm scrivendo che: «tutte le tre aree del mondo procedevano nell’epoca postbellica con la convinzione che la vittoria sulle nazioni del Patto tripartito, acquisita con la mobilitazione politica antifascista e con indirizzi politici rivoluzionari, come pure col ferro e col sangue, aprisse una nuova epoca di trasformazione sociale». Se la versione politica della trasformazione sociale era la rivoluzione democratica, la sua manifestazione economica stava nel principio dell’iniziativa pubblica. È ancora Hobsbawm a evidenziarlo osservando che «dopo il 1945 tutti questi paesi respinsero nelle intenzioni e nei fatti l’economia di mercato e aderirono ai principi della direzione pubblica e della pianificazione statale» dell’economia. È questo spirito di liberazione e di trasformazione del 1945 che sospinge popoli e nazioni verso la democrazia radicale. Nella Gran Bretagna del 1945 a vincere le elezioni di luglio non sono i conservatori di Churchill ma i laburisti di Clement Attlee con la parola d’ordine never again, mai più, scagliata contro la società dei pochi privilegiati e della disoccupazione di massa. In breve tempo, e abbandonando il vecchio principio del gradualismo, il governo laburista riuscì a concretare il socialismo dentro la democrazia: i settori dell’energia elettrica, della sanità, dell’acqua, dei trasporti furono tutti nazionalizzati; il Welfare State potenziato; una poderosa azione riformista rivoluzionò l’intera società britannica realizzando riforme senza precedenti nella storia del Regno Unito. Il governo di Attlee si era richiamato al senso di comunità e aveva mobilitato il sentimento collettivo del popolo, che in guerra aveva resistito alla minaccia nazista e ai suoi terribili bombardamenti. Non a caso è significativamente intitolato The Spirit of ’45 l’interessante documentario che il regista Ken Loach ha dedicato alla storia del primo governo laburista inglese. Anche in Belgio, nei Paesi Bassi e nei paesi scandinavi è praticata una trasformazione sociale che caratterizzerà finanche il mondo decolonizzato e l’Europa dell’est, naturalmente con tutti i limiti che la storia registra e che attendono ancora di essere analizzati e contestualizzati fuori dallo schema della “Guerra fredda”. Pure in Francia, annota Stéphane Hessel rievocando le conquiste sociali della Resistenza oggi rimesse in discussione e abolite, «a partire dal 1945, dopo una spaventosa tragedia, le forze in seno al Consiglio della Resistenza si votano a un’ambiziosa risurrezione. È allora, rammentiamolo, che nasce la Sécurité sociale così come la Resistenza l’auspicava, come il suo programma prevedeva». Nell’anno della Liberazione pure in Italia lo spirito del 1945 ispirava uomini, movimenti e idee. Aveva cominciato a manifestarsi nelle repubbliche partigiane, che sperimentarono l’autogoverno democratico in quel laboratorio politico che anche fu il movimento partigiano; nelle leghe sindacali, che organizzarono le lotte sociali nel Meridione; nei Comitati di Liberazione Nazionale sorti in ogni regione, in ogni città, in ogni azienda ed esaltati da Piero Calamandrei, il quale all’indomani dell’insurrezione popolare ne rivendica la funzione rivoluzionaria affermando che: «durante il periodo della lotta clandestina le sole forze politiche vive sono state quelle raggruppate intorno ai comitati di liberazione: vive perché disposte a lottare e a sacrificarsi. A queste stesse forze, e a esse sole, spetta oggi il compito di ricostruire il nuovo Stato italiano. A esse sole: questo è uno dei punti su cui occorre avere idee chiare». Si tratta di movimenti sempre più dinamici, che spingono in direzione non di un’ordinaria transizione ma di una straordinaria trasformazione della vecchia realtà. In questo senso si può dire che con la Liberazione del 25 aprile 1945 erompeva una domanda rivoluzionaria di grande trasformazione delle strutture politiche, sociali, economiche, culturali, istituzionali del paese. Morto l’8 settembre 1943 lo Stato liberale e monarchico generato nel 1861 dalla soluzione moderata del Risorgimento, liberata dal nazifascismo la Patria, si trattava adesso di ricostruire una nuova Italia con i materiali culturali e politici forgiati nelle fucine del Risorgimento e della Resistenza; scolpendo, nel cantiere della Costituente, la roccia della democrazia rivoluzionaria risorgimentale con gli strumenti di autogoverno e di autogestione temprati dalla Resistenza. Se l’Italia era contemporaneamente attraversata da una tendenza alla continuità del vecchio Stato, che rimetteva in discussione la “costituzione provvisoria” già approvata nel giugno 1944, tuttavia lo spirito del ’45 si espandeva vigorosamente sulla scia dell’insurrezione armata e dell’avvincente immagine di trasformazione che essa ispirava alle masse popolari. È in questo scenario politico generato dall’insurrezione armata che entra in azione Ferruccio Parri. Il Governo della Liberazione Tornato direttamente dal campo di battaglia della guerra partigiana, che gli altri leader politici avevano vissuto da lontano; esponente di punta dell’unico partito che non aveva alcun legame con il passato prefascista, il Partito d’Azione; estraneo al sistema politico prefascista del quale invece Bonomi, Nenni, De Gasperi, Croce avevano a vario titolo fatto parte (alcuni addirittura a contatto persino col Mussolini ancora socialista, altri sostenendolo col voto in Parlamento fino al 1925), Ferruccio Parri è l’uomo politico nuovo che incarna e interpreta lo spirito del 1945 italiano. Ancor prima di essere indicato come Presidente del Consiglio, aveva pubblicamente affermato da Roma che «in virtù della guerra partigiana si è determinata una situazione profondamente diversa da quella che ispira la politica attuale, e noi siamo venuti per rappresentare al governo la necessità che la politica italiana si adegui alla situazione nuova [...] il cammino da percorrere è ancora lungo e duro; sarà pieno – certamente – anche di delusioni; ma quella che intendiamo battere è l’unica strada. Battiamola, vi garantisco che ne vale la pena e che se sapremo lavorare questo può essere l’inizio del nostro secondo Risorgimento». Con questa convinzione ideale Parri accoglie la richiesta formulata dai sei segretari dei partiti del CLN di presiedere il primo governo dell’Italia liberata. Mobilitando il mito storico e politico del secondo Risorgimento, s’inserisce nella sfida tra continuità e rottura, transizione e trasformazione, prefiggendosi d’interrompere e rompere la tendenza alla continuità e alla transizione. Indicative le dichiarazioni che accompagnano il suo esordio e nelle quali risuona l’eco del suo prediletto Giuseppe Mazzini, che nel discorso pronunciato il 10 marzo 1849 all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana, aveva esaltato l’armonico legame tra governo e popolo. Anche Parri, dopo avere ricordato che il suo governo aveva origine dal popolo, dichiarava nel suo primo discorso da Presidente che «Governo e popolo sono la nostra idea, non sono due entità distinte e quasi avverse. Questo governo [...] è governo di popolo e deve governare per il popolo: tutto il popolo, senza distinzione di partiti e soprattutto oltre i partiti, senza distinzioni di regioni». Ancora prima si era appellato a quegli uomini e donne che rappresentavano la base militante e combattente della guerra partigiana; lo ricorda Alessandro Galante Garrone che racconta: «il 14 giugno 1945, durante le consultazioni per dar vita a un nuovo governo, in una saletta di Montecitorio Parri iniziava il suo discorso con queste parole: “io sono qui il signor partigiano qualunque”». Queste immagini del secondo Risorgimento, del partigiano comune, del governo oltre i partiti, sollevano consenso negli ambienti più diversi e anche lontani dallo stesso Parri e dal suo partito. Sono i riverberi dell’entusiasmo popolare che accoglie e saluta in Ferruccio Parri il partigiano qualunque, l’uomo onesto, l’eroe popolare, il simbolo della Resistenza. Un entusiasmo che si lega all’ardore proveniente dalla base partigiana operante nei Comitati di Liberazione, militante nei partiti antifascisti, ritornata nelle case, nelle fabbriche, nei campi, negli impieghi, nella quotidianità. È indubbio che il sentimento di attesa che si diffuse a livello popolare tra la fine del governo Bonomi e l’inizio del governo Parri abbia contribuito a determinare nel paese il bisogno psicologico di un fatto nuovo, da cui ricominciare. Questo bisogno psicologico, l’entusiasmo dell’opinione pubblica, l’ardore della base partigiana conferiscono a Parri, nelle prime settimane di vita del suo esecutivo, un carisma che egli tenta di rappresentare . Questo elemento carismatico Ferruccio Parri lo riteneva necessario per alimentare, diffondere e difendere lo spirito del 1945: il valore della lotta partigiana come guerra di Liberazione anche politica, la Resistenza come rivoluzione democratica, l’unità antifascista come soggetto collettivo d’ideali comuni. È stata biasimata a Parri un’attenzione eccessiva alla pedagogia civile piuttosto che ad altre questioni ritenute più importanti; si sottovaluta, però, il fronte culturale e ideologico della battaglia politica che Parri conduce nei cinque mesi del suo governo. Come contrastare la tendenza politica alla continuità del vecchio Stato e alla transizione se non popolarizzando il significato della Resistenza? Parri non perde occasione, prima e durante il suo mandato, di appellarsi al sangue dei caduti, alla dura lotta del partigiano, agli ideali per i quali tanti giovani avevano sacrificato la vita; per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’importanza della Costituente nel costruire il presente e il futuro del Paese. All’indomani della formazione del suo governo, il 23 giugno, in un radiomessaggio indirizzato al popolo italiano, dichiara: «voi, papà e mamme d’Italia, alle prese con lo spinosissimo problema giornaliero del pranzo e della cena, voi vedete in prima linea le necessità materiali. Lasciate che io metta in prima linea il lato morale [...] è la premessa di tutto, la premessa di ogni risurrezione. Abbiamo bisogno di una lunga e tenace opera di educazione civile che ci liberi da un triste passato e da antiche eredità, che dia agli italiani il senso della serietà morale [...] Ed anche il problema politico è d’importanza primordiale. La Costituente, papà e mamme d’Italia, non sfama i vostri figli. Ma se noi non arriviamo, e presto e ordinatamente, a dare all’Italia un nuovo assetto organico, perdiamo il frutto della nostra liberazione, perdiamo la possibilità per domani di governare, di amministrare e di ricostruire, perdiamo la stessa libertà, ed i nostri caduti saranno caduti invano. Per questo ci hanno chiamato e ci siamo chiamati il governo della Costituente, perché la Costituente sarà il coronamento della lotta di liberazione, il fondamento della nuova società italiana, prologo della nuova storia». In questo richiamo emozionante alla forza morale, all’educazione civile, al popolo dei papà e delle mamme alle prese con le esigenze materiali, al sangue dei caduti, al prologo di una nuova storia, c’è tutto lo spirito del 1945 italiano che Parri porta al Viminale insieme all’esperienza unitaria della guerra di Liberazione e alla parola d’ordine del primo e del secondo Risorgimento: la Costituente. Secondo l’interpretazione corrente Parri si sarebbe lasciato ingenuamente ingannare dai partiti credendo davvero che il suo sarebbe stato il “governo della Costituente”, ossia della rivoluzionaria svolta democratica proiettata di là del vecchio regime liberale. Non si tiene in conto, però, che Parri aveva già vissuto la drammatica esperienza del primo dopoguerra italiano, che pur avendo sprigionato una situazione rivoluzionaria nello stesso momento in cui il vecchio Stato liberale deperiva in una crisi mortale, era poi sboccato nel fascismo per l’inadeguatezza del riformismo, l’inconcludenza del massimalismo e l’esiguità del movimento democratico. Ora, nel 1945, quella situazione storica si ripeteva ma non gli sfuggiva che il quadro era mutato: il fascismo sconfitto, lo Stato liberale esaurito, l’antifascismo potente e consacrato da una vittoriosa insurrezione armata che doveva essere proseguita politicamente. Ed è quello che tenta di fare: la liberazione politica dopo la liberazione armata. L’1 settembre 1945, al primo congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale Alta Italia, dirà alla platea dei partigiani: «voi avete il dovere di riuscire a mantenere la collaborazione di gruppi sociali e di partiti diversi su un punto di incontro e di equilibrio, che è il solo modo di dare il vostro efficace contributo all’opera di ricostruzione [...] Se riuscite a mantenere questa posizione centrale di equilibrio della vita politica italiana [...] se riuscite ad esser capaci voi partiti, voi tutti partiti, di una autolimitazione delle vostre possibilità [...] è il solo modo [...] per arrivare alla Costituente. Vi è dunque [...] uno sforzo di contemperamenti di situazioni particolari di partiti, che vi aspettano, e se voi riuscirete, darete una prova che sarà la seconda dopo quella che avete dato, di capacità di liberazione del popolo italiano: la prova della sua maturità politica». Né a Parri sfuggiva che la Resistenza subiva il condizionamento degli Alleati, soprattutto dopo che a Roosevelt era succeduto Truman, e dei partiti, ancora una volta incapaci di gestire un’autentica situazione rivoluzionaria e tarlati dalla vocazione partitocentrica (quando non partitocratica). Proprio per questo egli, accettando l’incarico di Presidente del Consiglio, pone come condizione politica la realizzazione della Costituente, che altro non significava se non la realizzazione del mandato politico elaborato nel giugno 1944 dai partiti antifascisti uniti e solennemente approvato dal governo allora in carica. Tornando a quella parola d’ordine originaria, Parri tenta di bloccare ai partiti le vie di fuga in avanti e in direzione opposta che mostrano di voler imboccare, e indica la via dell’antifascismo unito in una sola e compatta forza protesa verso la trasformazione. Come scrive Giorgio Vaccarino, insomma, «tutta la storia del governo Parri è una lotta fra i disegni, per quanto possibile avanzati, di una ricostruzione democratica e le soluzioni a volta a volta compromissorie che la situazione imponeva». Una lotta rivelatrice delle posizioni che maturarono all’interno della Resistenza non sulla linea di confine nord/sud, secondo la nota e ancora oggi prevalente tesi di Federico Chabod, ma sulla bisettrice politico-culturale che taglia l’antifascismo in due poli distinti e contrapposti: il polo della continuità e quello della trasformazione. Lentamente, nel corso del tempo, secondo gli interessi particolari, i partiti antifascisti pendolarono da un polo all’altro prima di scegliere definitivamente dove posizionarsi, separandosi e sgretolando così l’unità antifascista. Può certamente apparire irreale, col senno di poi, l’enfasi sulla Costituente. Questo “irrealismo”, però, è una risorsa politica che Parri adopera contro il realismo politico dei suoi avversari visibili e invisibili. È il Parri mazziniano, in realtà, che viene fuori a sfidare i moderni seguaci del Machiavelli. Per una singolare coincidenza della storia, alcuni mesi prima, nel marzo 1945, Guido Dorso, che di Parri fu amico, aveva pubblicato sulla rivista L’Acropoli un saggio dedicato al «Mazzini politico dell’irrealtà». Il pensatore repubblicano è studiato come chi sfida la realtà politica e le forze, le istituzioni, i ceti, i loro equilibri, compromessi, accomodamenti, piegamenti, in essa operanti. Attraverso Mazzini, Dorso avverte che il 1945 richiede la concentrazione assoluta in una sola idea che altra non può essere che la revisione critica di tutto il processo di formazione e di dissoluzione dello Stato storico italiano: dal “capolavoro diplomatico- istituzionale” di Cavour alla disfatta della “diarchia” sabaudo-fascista. Il 1945 parve a Dorso il momento di volgersi a Mazzini. Si potrebbe dire che fu precisamente quello che fece Ferruccio Parri nel suo governo. Se l’Italia aveva bisogno di una politica dell’irrealtà, egli gliela offrì: senza eccessive illusioni ma anche senza colpevoli rassegnazioni, com’era nel suo carattere e nel suo stile, duellando contro la realtà politica del suo tempo e i suoi equilibrismi, compromessi, istituzioni, partiti. Lo scontro decisivo avvenne il 26 settembre 1945 nell’aula della Consulta Nazionale. Aveva la parola Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, mazziniano, Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia appena liberata dal nazifascismo. A un certo punto della sua orazione, rivolse all’assemblea le seguenti parole: «quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione d’incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica [...] tenete presente che da noi la democrazia è appena agli inizi [...] Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo [proteste di parte dell’assemblea, commenti, rumori, Parri è fatto bersaglio d’interruzioni, i consultori si schierano apostrofandosi a vicenda, faticosamente Parri riprende la parola] mi rincresce che la mia definizione sia stata mala accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali». Contro Parri, intervenne Benedetto Croce nella sua veste di leader del Partito Liberale Italiano. Difese la realtà dello Stato liberale affermando che esso aveva consentito l’evoluzione materiale e morale degli italiani, i quali giunsero al suffragio universale, poterono fondare associazioni e camere del lavoro, ottennero il diritto di sciopero, ebbero rappresentanti socialisti in Parlamento; infine, chiarì: «democrazia senza dubbio liberale perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la via alle dittature e ai dispotismi». Il Presidente Parri così replicò nella seduta del 2 ottobre: «alla qualificazione di democrazia, alla qualifica di democratico, io annetto connotati politici determinati, che non riconosco in atto neppure oggi. Oggi abbiamo una volontà democratica non un regime, non un costume politico democratico». Ricomparivano in quel dibattito le fasi della lotta tra liberali e democratici che aveva sconvolto l’Italia da Cavour a Giolitti, compreso la lunga e triste storia di repressioni sociali che il regime liberale aveva commesso e che Croce adesso evitava di ricordare nel suo discorso. Poche settimane dopo i ministri liberali abbandonarono il governo, seguiti dai ministri democristiani, e Parri fu costretto a dimettersi. Sfidando la realtà aveva tentato di spezzare quella linea della transizione che si sovrapponeva sempre più sull’altra della trasformazione, richiamandosi a quella rivoluzione democratica che era stata del Risorgimento e che ritornava con la Resistenza. Sarà sconfitto, come Mazzini prima di lui; e il Partito d’Azione nato dalla Resistenza si dissolverà, com’era già capitato al Partito d’Azione nato dal Risorgimento. Insediatosi il 21 giugno 1945, il governo Parri rimarrà in carica fino al 24 novembre successivo, quando il suo Presidente darà le dimissioni. Il Governo nato dalla Resistenza cesserà le sue funzioni il 10 dicembre 1945, mentre il mondo uscito definitivamente dalla guerra intravedeva comparire all’orizzonte una minacciosa cortina di ferro; del resto, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, il 1945 non aveva generato alcuna trasformazione epocale ed era anzi prevalsa una sostanziale continuità con il passato, che addirittura in America giunse a recuperare con Truman quelle politiche economiche liberaliste che il New Deal aveva creduto di archiviare. Quello stesso Truman cui Parri stava antipatico. Prova ne sia che l’italo-americano Amedeo Giannini, Presidente della Banca d’America e d’Italia, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Napoli il 15 novembre 1945, dieci giorni prima le dimissioni di Parri, aveva dichiarato che «l’alta banca e l’alta industria americana non avrebbero mosso un dito in nostro favore finché non avessero visto la casa in ordine». Che cosa resta oggi, di indispensabile per il presente, di questa storia? Forse rimane una chiave di lettura per interpretare l’angoscioso destino di una Costituzione nata da una volontà trasformatrice ma rimasta impaludata nelle sabbie mobili di un’interminabile e interminata transizione.

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LO SPIRITO DEL 1945 IN ITALIA: IL GOVERNO PARRI SETTANTACINQUE ANNI DOPO di Michelangelo Ingrassia

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